La tragedia della Cecenia
Anna Politkovskaja
Ichkeria: una parola che in ceceno indica la parte montagnosa del paese. Nel 1992 Jokhar Dudaiev, primo presidente della Cecenia indipendente, battezzò tutto il paese con questo nome, scandalizzando i suoi compatrioti che vivevano in pianura. Ricercatori e uomini politici versarono fiumi di inchiostro per spiegare la differenza tra i montanari, più bellicosi e tradizionalisti, e gli abitanti della pianura, più “russizzati” e tranquilli.
Oggi, dopo tre anni e mezzo di guerra, questa differenza si è notevolmente ridotta, ma un conflitto interceceno divide la gente in ogni villaggio e in ogni città, in pianura come in montagna. È sbagliato credere che i ceceni si dividano semplicemente in sostenitori di Maskhadov e sostenitori dei wahabiti. Alcuni, fin da subito, si erano opposti a Dudaiev e all’idea stessa di una sovranità cecena e avevano lasciato il loro paese per farvi ritorno solo nel 2000, al seguito delle truppe federali.
Come si sente oggi questa gente, in una Cecenia ufficialmente pacificata, sotto il doppio controllo dell’amministrazione cecena imposta dal Cremlino e delle truppe federali?
Sono vicina al grosso villaggio di Shatoi, sul fianco della montagna, e sto parlando con Said-Khassan, un uomo imponente e tarchiato. È l’estate indiana, la montagna è avvolta da un dolce calore. Il paesaggio, molto sobrio, è impregnato di una grande bellezza. Una foresta di pini secolari avvolge i contorni delle montagne; gole e fiumi sembrano essere stati disegnati dal Creatore con cura particolare. Sarebbe bello vivere in pace in questo luogo, dove l’occhio poco esercitato non nota alcuna traccia di guerra. Gli abitanti chiamano la loro regione la Svizzera cecena…
Originario di Shatoi, Said-Khassan è uno di quelli che sono tornati al villaggio dopo un periodo d’esilio a Mosca. È tornato in elicottero con i militari russi. Ha partecipato con loro alla caccia ai wahabiti. Due anni dopo, nell’agosto del 2002, Said ha tutto da temere dai suoi ex compagni russi, malgrado continui a essere nemico dei sostenitori di Maskhadov. Si sente un animale braccato che non sa dove andare né come vivere. Ha più di cinquant’anni, ha commesso molti errori e nessuno lo perdonerà. È letteralmente esausto, non vuole più la guerra e non vuole più appoggiare chicchessia…
Da dove gli vengono questa tristezza e questa delusione? Per capirlo bisogna tornare indietro, al gennaio del 2002.
A quarantatré anni, ancora non mi era mai capitato di sentire l’odore atroce di un uomo bruciato, eppure eventi drammatici ne ho vissuti, e neanche pochi. Ho fatto per la prima volta quest’esperienza a Shatoi.
Sono rimasta pietrificata… Poi mi sono resa conto che mi ricordava un odore della mia infanzia sovietica. All’epoca comunista, quando i negozi, soprattutto in provincia, erano vuoti, non si trovavano polli, pronti da cucinare. Mia zia Vera, che faceva da mangiare a me e mia sorella, quando preparava il pollo per la minestra, dopo averlo spiumato lo passava sulla fiamma di un fornello a gas.
“Era un bambino, vero? Non può essere un adulto.” Ripeto la domanda come una bambola meccanica, quasi per cercare di convincere me stessa… Io e le sorelle di Magomed Mussaiev, morto l’11 gennaio 2002, stiamo guardando i quattro “bozzoli” che stanno per essere seppelliti. Sono allineati per terra su un bel tappeto da festa, un tappeto talmente fuori luogo che verrebbe voglia di cancellarne i colori troppo vivaci.
Davanti ai nostri occhi ci sono alcuni pacchetti avvolti in lenzuola di un bianco immacolato. Sembrano neonati fasciati per uscire dalla clinica insieme alla loro mamma. Due “bozzoli” sono minuscoli, come se contenessero dei bebé, gli altri due sono più voluminosi.
Ma non sono neonati né bambini. Nonostante insista con la mia domanda, so perfettamente che sono resti di adulti… La fotografia mostra gli ultimi istanti prima del funerale nel villaggio di Nokhchi-Keloi, nel distretto di Shatoi. Quattro cadaveri avvolti di bianco. Le altre due vittime di quest’ennesima tragedia cecena sono state seppellite altrove.
Ecco i fatti. L’11 gennaio, nel distretto di Shatoi, sulla strada che dal villaggio di Dai porta al villaggio di Nokhchi-Keloi, alla luce accecante di un sole invernale, dieci soldati del corpo speciale del GRU1 hanno ucciso sei persone che viaggiavano a bordo di una jeep e ne hanno bruciato i corpi…
La versione ufficiale dei militari trasformò quest’esecuzione sommaria in una “operazione speciale collegata alla cattura di Khattab ferito”. L’operazione si era conclusa con sei tombe civili scavate in tre diversi cimiteri di campagna e ventotto bambini rimasti orfani. Ma della cattura o dell’eliminazione di Khattab non c’era traccia. Ovviamente la storia aveva suscitato la rabbia, l’odio e le maledizioni di migliaia di abitanti di Shatoi.
Il “bozzolo” di sinistra è il più piccolo. Si chiamava Zainap Javatkhanova, quarant’anni, madre di sette figli, incinta…
Gli uomini del GRU, il cui addestramento grava non poco sul contribuente, hanno torturato questa donna alla fine della gravidanza. L’hanno trascinata viva nella neve e uccisa, poi hanno bruciato il suo corpo sapendo che ne stavano bruciando due…
Alla fine, di Zainap non era rimasto che un piede. Suo marito e i suoi figli più grandi l’hanno riconosciuta dai resti dello stivale. “Abbiamo seppellito le ceneri e il piede”, dice mestamente Larissa Shabazova, cognata di Zainap. In Cecenia la gente è abituata a vivere cose che il resto del mondo ha cercato di dimenticare dopo la seconda guerra mondiale, sicuri che non sarebbero mai più avvenute. Ora Larissa parla dei figli della vittima: “Jabrail ha quindici anni. Seda ne ha sette. Il maggiore, malato di mente, diciassette… E la più piccola ne ha solo due…”
Neanche l’altro fagotto bianco è un bambino. È ciò che rimane di Said-Magomed Aslakhanov, sessantanove anni, direttore della scuola di Nokhchi-Keloi. Generazione dopo generazione, quasi tutti da quelle parti sono stati suoi allievi. Era l’uomo più rispettato del villaggio. L’11 gennaio era andato a Shatoi a una riunione di lavoro con il professore di storia Abdul Wahhab Satabaiev. Dopo pranzo, il direttore e il professore avevano deciso di tornare indietro ed erano saliti sulla jeep che fa quotidianamente la spola tra i due villaggi, sull’unica strada percorribile del fianco della montagna. A bordo dell’auto avevano incontrato il boscaiolo Shakhban Bakhiev, anche lui di ritorno da una riunione dell’amministrazione distrettuale. Quanto a Zainap, stava tornando a casa dopo una visita dal ginecologo, a Grozny. A Shatoi non c’è più ospedale, l’edificio è stato occupato dai militari che ne hanno fatto la loro base.
Sulla via del ritorno, Zainap aveva deciso di andare a trovare la famiglia a Staryie Ataghi. Dato l’avanzato stato di gravidanza, i suoi familiari non avevano voluto lasciarla tornare a casa da sola e avevano chiesto a Magomed, suo nipote, di accompagnarla. Si tratta dello stesso Magomed del cui cadavere le sorelle mi mostrano le foto… Come se la morte del fratello non bastasse, qualche giorno più tardi, grazie alla legge cecena, il futuro di queste simpatiche studentesse aveva cessato di esistere: due settimane dopo l’11 gennaio 2002, infatti, a Staryie Ataghi era iniziata una nuova zaciska e i soldati avevano violentato le sorelle Mussaiev. Sono state le prime donne cecene a sporgere denuncia in tribunale.
“Come mai non avete avuto paura di fare la denuncia?” Faccio questa domanda mentre tengo in mano le fotografie dei ‘bozzoli’. “Credevo che aveste regole molto rigide riguardo a queste cose. Le altre donne violentate durante la guerra non hanno mai fatto denuncia.”
“Non c’è nessuno per vendicarci. Nostro fratello è morto, dobbiamo difenderci da sole”.
Il loro Magomed era stato l’unico a resistere ai militari. Quando i soldati dellospetznaz2 avevano cominciato a seviziare le persone, subito dopo averle fatte scendere dalla jeep, Magomed, ferito, era corso verso il fiume che scorre ai piedi della montagna. Era rotolato giù per il pendio, ma senza riuscire ad andare molto lontano. È stato abbattuto vicino al fiume gelato. Per questo il suo cadavere non è stato bruciato: ai combattenti dello spetznaz non andava di arrivare fino al fiume, di affondare nella neve bagnata. E così non hanno bruciato il corpo di Magomed, figlio unico di una famiglia ridotta ormai a tre sorelle nubili, una madre resa pazza dal dolore e un padre invalido che non si alza più dal letto.
Il sesto corpo è quello di Khamzat Tuburov, un autista di Dai conosciuto in tutta la regione perché da anni faceva la spola tra i villaggi dei dintorni. Di questo padre di cinque figli non è stato trovato altro che qualche osso carbonizzato.
Nokhchi-Keloi è sotto shock. Lo sarà a lungo. Questo piccolo villaggio, le cui case di montagna sono sparse lungo la strada che porta in Daghestan, durante l’estate del 1999 ha visto passare le truppe di Bassaiev e Khattab che correvano in aiuto dei wahabiti daghestani, quelli che volevano trasformare la loro repubblica in un nuovo emirato. L’intero villaggio, sessanta famiglie poverissime afflitte da fame e tubercolosi, può confermare che sulla via del ritorno queste truppe non incontrarono alcun “fastidio” da parte dell’esercito federale. Però questo villaggio non aveva mai vissuto drammi simili….
È per questo motivo che lì per lì gli abitanti non avevano voluto credere alle parole di quelli di Dai, un villaggio distante sette chilometri, un po’ all’interno rispetto alla strada che porta in Daghestan, quando il 12 gennaio 2002 erano arrivati per dire: “Pare che i vostri siano stati assassinati sulla strada vicino a noi, accanto a una fattoria abbandonata. I militari hanno rimorchiato la macchina, con le ossa, fino a Shatoi e l’hanno abbandonata nel parco. Ci stanno andando tutti, per cercare di riconoscere i resti. Dovete andarci anche voi”.
Alcuni uomini, parenti di persone che erano andate a Shatoi il giorno prima e non erano tornate, avevano deciso di andare a vedere. Sono loro che hanno portato le ossa rotte e carbonizzate al laboratorio di criminologia di Vladikavkaz, nella vicina repubblica dell’Ossezia del Nord. In Cecenia, nonostante la guerra e la gran quantità di morti, non ci sono ancora laboratori di questo tipo.
A Vladikavkaz avevano detto che, a differenza di quanto pensavano i vecchi del villaggio, i cadaveri erano sei e non cinque. Ai parenti delle vittime venne consegnato un certificato di morte redatto dai medici legali. Ne citerò alcuni passi:
Shakhban Bakhaiev, boscaiolo. “Causa del decesso: cranio lesionato in diversi punti e ferita mortale da arma da fuoco alla testa”. Significa che quest’uomo è stato seviziato prima di essere giustiziato, e poi il suo corpo è stato bruciato.
Said-Magomed Aslakhanov, direttore di scuola. “Causa del decesso: non accertata. Resti di corpo interamente calcinati”. Era rimasto talmente poco di lui che non sono riusciti nemmeno a stabilire la causa della morte…
Zainap Javakhanova, madre di famiglia numerosa. “Causa del decesso: non accertata. Resti del corpo interamente calcinati”.
Anche questa contadina era stata completamente bruciata. Zainap faceva parte di quei ceceni che si erano rifugiati in Georgia, e per un lungo periodo di guerra aveva vissuto con marito e figli nella valle di Pankisi. La famiglia aveva fatto ritorno in Cecenia poco tempo prima del suo assassinio, credendo alle promesse rassicuranti degli ufficiali russi che caldeggiavano il ritorno dei profughi.
Dovevate proprio farla tornare? Perché di lei e del suo bambino non rimanesse che un piede?
Ci troviamo nel cortile della casa più povera di Nokhchi-Keloi. È qui che viveva il professore di storia Abdul-Wahhab Satabaiev di cui non è stata trovata la testa. Hanno seppellito i suoi resti avvolti in un “bozzolo”, senza la testa.
Baisark è la vedova di Abdul-Wahhab. I cinque orfani non vengono fuori a prendere parte alla conversazione degli adulti. Sono incollati al vetro di una finestrella. Le adolescenti, fazzoletto nero in testa, mi fissano con uno sguardo duro e pieno di disprezzo, come se fossi stata io a uccidere loro padre. Intanto la vedova allarga un po’ le mani come se volesse prendere una scodella, ma il gesto serve a mostrarmi ciò che aveva seppellito: due ossa carbonizzate.
“Le ossa erano abbastanza grandi”, spiega Baisark rabbrividendo e gettando uno sguardo alle ragazze incollate alla finestra. “Noi abbiamo l’usanza di avvolgere i morti in una gran quantità di stoffa. Così i nostri vecchi hanno usato tantissima tela per dargli l’aspetto di un cadavere”.
La donna piange in silenzio e i vecchi del villaggio, che poco a poco si vanno riunendo nel cortile, sospirano in tono di rimprovero: qui non si usa che le vedove piangano parlando del defunto marito. Le figlie possono piangere, ma non Baisark.
“Che devo fare?”, chiede Baisark con calma, come vuole la tradizione. “Come scoprire la verità? Chi sono i colpevoli? E chi mi aiuterà a trovarli?”
“Ci hanno dimenticato tutti, ci hanno lasciati soli con il nostro dolore”, confermano gli anziani.
Nessuno, né il primo ministro ceceno Stanislav Iliassov, né il presidente Akhmat-Khaji Kadyrov e neanche i loro rappresentanti e funzionari rimasti trincerati dietro il grande muro di cinta dei palazzi dell’amministrazione a Grozny, è venuto a Shatoi dopo la strage dell’11 gennaio 2002. Nessuno, nonostante la gravità senza precedenti di ciò che era successo.
Iliassov, Kadyrov e compagni rappresentano il cosiddetto potere civile installato in Cecenia da Vladimir Putin per sostituire Maskhadov e il suo governo. Si può discutere per decidere se queste “figure nuove” abbiano ragione o meno, ma non è questo il punto. Questo potere, come prima quello di Maskhadov, non è di nessuna utilità per la popolazione civile. Ha paura di tutto, si nasconde a Grozny protetto dall’esercito e non aiuta il popolo quando ne avrebbe bisogno. E invece proprio questa dovrebbe essere la vocazione unica di ogni governo, a che serve sennò?
Le famiglie delle vittime si aspettavano almeno le condoglianze dai dirigenti. Così vuole la tradizione in Cecenia: le persone devono esprimere con le parole i propri sentimenti di compassione. Ma non ci sono state condoglianze.
“Ci ha fatto particolarmente male il comportamento dell’attuale mufti Shamaiev”, mi ha detto la gente di Nokhchi-Keloi, “esattamente uguale a quello di Kadyrov e Iliassov. Eppure è originario di Shatoi. Eravamo cosi fieri quando è diventato mufti della Cecenia. Lo avevamo sostenuto in tutte le riunioni. Avevamo scritto lettere in suo favore…
Dopo l’11 gennaio al villaggio c’era stato un incontro. Il colonnello Plotnikov, presentato dai militari che lo accompagnavano come “capo dell’operazione” che era costata la vita a Zainap e agli altri, si era comportato in modo aggressivo. Senza minimamente sentirsi a disagio per la presenza delle vedove e degli orfani, si era messo a urlare: “Cos’è tutto questo chiasso? Perché fate tutto questo casino per sei cadaveri? Ultimamente ne ho fatti fuori novantadue e non è successo niente!” La gente era rimasta così stupita dalle parole di Plotnikov che non lo aveva nemmeno fatto a pezzi.
Era stato il maggiore Vitali Nevmerjiski, capo dei servizi segreti militari del centro di comando del distretto di Shatoi, a portarlo al villaggio.
“Perché lo ha fatto? La gente avrebbe potuto uccidere il colonnello”.
“L’ho fatto apposta”, risponde il maggiore. “Volevo che vedesse con i suoi occhi quello che aveva fatto”.
Nevmerjiski ha ventinove anni. È molto alto, ha un bel viso aperto, una moglie a Nijni Novgorod e molti problemi nella vita privata, perché è in servizio sin dalla prima guerra e torna raramente a casa. A Shatoi è un personaggio famoso e rispettato, e ne va molto fiero. Si muove nel centro del distretto senza armi né guardie del corpo, nessun altro ufficiale potrebbe permetterselo. Dopo l’11 gennaio è diventato una figura mitica in quanto principale testimone della tragedia avvenuta vicino al villaggio di Dai. Vitali, a bordo di un blindato e accompagnato da un gruppo di militari, era passato vicino ai soldati del GRU all’inizio della tragedia ma non aveva sospettato quello che stava per succedere. Era tornato indietro solo dopo aver finito i suoi giri, arrivando a massacro finito. Era stato lui a far venire sul posto gli ufficiali inquirenti del tribunale militare che, dopo aver raccolto prove inconfutabili, avevano fatto arrestare i colpevoli. Non succede quasi mai in Cecenia, per i crimini commessi dai militari.
Il maggiore ha addirittura testimoniato in tribunale contro i suoi “fratelli”, sono parole sue. Quindi, si trova in una situazione delicata. È un uomo audace e colto che si rende perfettamente conto di quello che sta succedendo e soffre perché capisce troppo bene la situazione.
“Mi spiace aver dovuto agire contro i ‘nostri’. Davvero”.
“Allora perché l’ha fatto? Poteva passare con il suo blindato e non fermarsi, come fanno di solito i militari”.
Il maggiore fa una lunga pausa, ma non è un segno di smarrimento. Sta solo cercando le parole. Voglio capire chi è, questo maggiore. La sua tipologia è chiara, visto che sta nei servizi segreti militari dall’inizio della prima guerra: ha il viso impassibile del killer professionista.
“Anche lei avrà fatto cose simili in passato. Forse non l’11 gennaio. Magari prima”.
“Certo. Qui non ci sono angeli. O uccidi, o vieni ucciso. A un certo punto però ti chiedi: come mai dura cosi tanto? Quanta gente bisogna uccidere ancora? Ma a Khankala non ne vogliono sapere… Fanno un errore dopo l’altro. I soldati del GRU hanno solo eseguito ciò che i generali di Khankala avevano stabilito”.
[…] Continuiamo la nostra conversazione. Il maggiore parla volentieri, cosa piuttosto insolita per un militare in Cecenia.
“L’11 gennaio abbiamo ricevuto un messaggio telefonico da Khankala secondo cui ‘quindici arabi stavano evacuando Khattab ferito dal villaggio di Dai’. Ci hanno dato disposizione di partecipare alla zaciska, ma agli ordini di un delegato di Khankala che avremmo dovuto incontrare sul posto, vicino a Dai, ventitre chilometri circa da Shatoi. Siamo arrivati con il blindato e abbiamo trovato il ‘delegato di Khankala’, tale colonnello Plotnikov. Gli ho subito detto che non c’era nessun ‘Khattab ferito’ e che a Shatoi la situazione era perfettamente sotto controllo. Ma non mi ha ascoltato. In Cecenia i militari non si fidano l’uno dell’altro. Allora gli ho spiegato che dovevano andarsene di lì al più presto, ma il colonnello era in uno stato strano…”
“Che vuol dire strano? Era ubriaco?”
“No, non è questo… Aveva voglia di entrare in azione, di sparare, avanzare, uccidere, senza fermarsi. In guerra succede. Era sovraeccitato, mi ha detto che stava tornando da un’operazione militare o da una zaciska. Moriva dalla voglia di continuare, e mi ha dichiarato che aveva intenzione di rimanere qui una settimana con i suoi uomini per ripulire tutta la zona ed eliminare tutti i delinquenti.
Verso le tre del pomeriggio sono arrivati gli elicotteri con il commando: lo spetznaz del GRU. Il grosso delle forze venne concentrato sulle alture di Dai, per controllare ogni accesso al villaggio. Noi eravamo convinti che Khattab non fosse lì, quindi siamo andati nella zona degli alveari del minuscolo villaggio di Zindoi. Ci sembrava l’unico posto plausibile dove Khattab avrebbe potuto trovare rifugio, perché nessuna famiglia del distretto lo avrebbe mai ospitato. Vicino alle rovine di una fattoria ho visto la jeep che effettuava il trasporto passeggeri a Shatoi. Era ferma, i soldati del GRU controllavano i documenti degli occupanti. Ho notato che c’erano quattro ceceni. Conoscevo uno di loro. Ho chiamato il capo dell’unità, un capitano, e gli ho chiesto di spostare la macchina per lasciarci passare.
Verso le cinque eravamo di ritorno dagli alveari. Il capitano si è precipitato verso di noi, la jeep era crivellata di colpi e i passeggeri non si vedevano più. Il capitano era molto nervoso. Mi ha detto: ‘Non riusciamo a comunicare con il capo, con Plotnikov. Se lo vedi diglielo’. ‘Hai qualche problema?’, gli ho chiesto. Rispose di sì. Ho subito capito che avevano ucciso qualcuno”.
Quelli di Khankala sono arrivati qui senza la più pallida idea della situazione reale. Ho capito subito che il capitano e il colonnello non erano al corrente di niente. Avevano paura di ogni cespuglio. Parlando con il capitano, mi sono reso conto che a Khankala li avevano spaventati: ‘Sulle montagne sono tutti banditi. Uccidete tutti quelli che incontrate. Vi copriremo’. Ecco cosa gli avevano detto. Hanno distrutto la jeep e i suoi passeggeri soltanto perché quella macchina si muoveva. Erano convinti che qualcuno li avrebbe coperti”.
“Coperti?”. Tra militari significa che il tribunale sarebbe stato intimidito, che non ci sarebbe stata alcuna inchiesta e che l’azione sarebbe rientrata nel quadro della lotta al banditismo, anche se di banditi non c’era traccia (tutta l’operazione di Shatoi era stata progettata soltanto in base a una “informazione operativa” non confermata).
[…]
Invece, questa volta i dieci membri dello spetznaz del GRU sono stati arrestati e sono in attesa di processo. Dall’inizio della seconda guerra cecena, è il primo arresto di un gruppo di militari, per giunta appartenenti all’élite dell’esercito, per l’assassinio di sei civili. L’istruttoria è stata condotta dal tribunale militare sul luogo del delitto e nella caserma del 291mo reggimento del Ministero della Difesa, di stanza vicino al villaggio di Barzoi, a qualche chilometro da Shatoi e Dai.
Il procuratore militare è il colonnello Andrei Vershinin, un uomo colto, che parla a voce bassa, curato, sempre perfettamente rasato. Sin dal 13 gennaio ha fatto di tutto per evitare che questo caso venisse insabbiato dalle pressioni di Kankhala, come tanti altri crimini militari. Ma in Cecenia l’istruttoria di un omicidio commesso da militari richiede un coraggio particolare, il procuratore vive perennemente sotto la minaccia di una pallottola sparata “per sbaglio” dai “suoi”.
Il colonnello Vershinin è riuscito in un’impresa ardua. Di solito i militari arrestati per crimini di guerra vengono mandati a Khankala, dove i casi di questo genere vengono puramente e semplicemente insabbiati. I “padri-comandanti” fanno di tutto per salvarli. Mandano i colpevoli “nella metropoli”, come si dice qui, e quelli scompaiono da qualche parte nel nostro gigantesco paese. Diversi tribunali custodiscono nei loro archivi decine e decine di fascicoli di istruttorie incomplete in seguito alla scomparsa degli indagati, che nessuno si degnerà mai di cercare… Ma il procuratore Vershinin ha fatto in modo che i membri dello spetznaz, già trasferiti a Kankhala, fossero rimandati sotto buona scorta al 291mo reggimento.
“Come spiega la tragedia del villaggio di Dai?” gli chiede.
“Tutto dipende dal fatto che la base di Kahankala è quello che è”, risponde Vershinin sorseggiando il suo tè da un boccale. “Per quanto mi riguarda, quando c’è un crimine penso sempre al movente. Vorrei proprio sapere chi ha dato l’ordine di distruggere i corpi di quei ceceni”.
“È sicuro che sia stato dato un ordine simile?”
“Ne sono certo. Il capitano ha bruciato i cadaveri alcune ore dopo l’omicidio”.
“Bene, diciamo pure che è successa una disgrazia: gli spetznaz hanno ucciso delle persone. Ma perché bruciare i cadaveri? Quello della donna incinta?”
“Quando faccio questa domanda, durante gli interrogatori, trovo un muro. È così con ognuno dei dieci militari indagati. Negano categoricamente di aver bruciato i corpi. Dicono tutti: sì, li abbiamo uccisi, ma sono stati i boieviki a bruciarli”.
“Quali boieviki? Come sarebbero potuti entrare a Dai, con tutti gli accessi al villaggio controllati dall’esercito e un distaccamento del comando militare dello spetznaz a dieci metri dal luogo del crimine? Lei ci crede?
“No. La risposta sta nelle sue domande”
Ogni storia ha una sua fine, ma nessuno sa in anticipo dove e quando finirà. A gennaio il maggiore Nevmerjiski si era comportato da eroe. Ma l’eroismo è impulsivo, e solo un ingenuo può sperare che il suo atto eroico lo protegga a lungo. In realtà l’eroismo è una prova molto crudele. Si paga sempre, così come si paga la vigliaccheria. Per tutta la primavera il maggiore ha avuto vita dura. I militari hanno cominciato a odiarlo. A Khankala si parlava male di lui, si diceva che era un traditore. I generali non ne volevano più sapere: avevano ordinato di trovare un pretesto per mandarlo via dall’esercito.
Ma non era di loro che il maggiore aveva paura. Tremava di fronte ai “fratelli”, di fronte ai compagni di quelli che l’11 gennaio 2002 erano andati a “catturare Khattab ferito” vicino al villaggio di Dai e che ora erano in prigione. In Cecenia, i militari del GRU sono numerosi e formano un gruppo molto unito, un corpo militare scelto che compie missioni “speciali” con la benedizione del governo, persone che si credono altrettanti Robin Hood al servizio del presidente.
Di tanto in tanto i “fratelli” andavano a trovare il maggiore a Shatoi per ricordargli che aveva un debito da pagare. Era chiaro che non gli avrebbero perdonato il tradimento e che esigevano una “riparazione”. Gli uomini del GRU sono sempre convinti di agire nel loro pieno diritto e considerano nemici tutti quelli che dissentono.
Proprio per questo motivo, il maggiore aveva voluto informarsi sulla sorte del tenente Bagreiev. Nel 2000, Bagreiev aveva servito nel 160mo reggimento di carri agli ordini di Yuri Budanov, il colonnello accusato di aver rapito, torturato e ucciso la giovane cecena Elsa Kungaieva. Al processo di Budanov, Bagreiev era stato uno dei principali testimoni d’accusa.
“Cosa gli hanno fatto i ‘nostri’?”, mi aveva chiesto Nevmerjiski, e avevo notato quanto temesse la mia risposta.
“I ‘vostri’ l’hanno totalmente emarginato. Sputano quando passa…”.
Così era andata la nostra conversazione. Il maggiore era calmo in apparenza, ma i suoi occhi tradivano la paura. Temeva per la sua vita, si vedeva benissimo, le pupille si ritraevano, le palpebre sbattevano di continuo, l’uomo sembrava farsi più piccolo. Salutandolo avevo pensato: “Sarebbe un peccato se quest’uomo non avesse la forza di reggere”. Ma non potevo immaginare il seguito tragico di questa storia.
Khumid Mansuraiev, del villaggio di Urd-Yukhoi, fa fatica a raccontare quello che è successo dopo: il comportamento di Nevmerjiski e quello di suo fratello, ufficiale ausiliario al servizio dei federali, e poi le esplosioni dell’agosto 2002 a Shatoi. Ma vuole parlare. “Dobbiamo raccontare”, dice. Ci sono verità che non si possono nascondere e per lui è il solo modo di ritrovare suo fratello Magomed. Khumid ha promesso al padre di ritrovarlo, vivo o morto, e da allora percorre in lungo e in largo la Cecenia e le repubbliche vicine. Ma al di fuori del distretto di Shatoi non ha trovato alcun indizio. Il concatenamento degli eventi parte da lì e lì ritorna come per incanto.
“Mio fratello aveva ottimi rapporti con il maggiore”, dice Khumid. “Nevmerjiski veniva spesso a casa nostra, da amico. Magomed era il vicecomandante del distretto militare. Aiutava molto il maggiore nel suo lavoro. Lei sa bene che gli ufficiali russi non possono combattere i banditi senza l’aiuto dei ceceni”.
Mi racconta che verso il mese di marzo Nevmerjiski cambia completamente. Era divorato dalla paura, lasciava raramente il centro di comando militare di Shatoi, e se usciva era sempre scortato dalle sue guardie. Si era messo a portare un giubbotto antiproiettile come tutti gli altri ufficiali, non si separava mai dal suo mitra e lanciava sguardi inquieti intorno a sé. Non era più il valoroso maggiore che gli abitanti di Shatoi conoscevano.
Di che cosa aveva tanta paura? Semplice: di morire, e si vedeva. Più il maggiore mostrava segni di debolezza, più a Shatoi gli uomini del GRU si facevano pressanti. Li si riconosceva da lontano, sono molto più armati dei militari normali. Hanno la tuta mimetica piena di tasche: sulle giacche, lungo i pantaloni, sul giubbotto che portano sopra le giacche… E quelle tasche sono piene di coltelli, accette, granate, pistole, fumogeni e altre porcherie da guerra.
Grazie a queste visite, Shatoi aveva cominciato a pagare il conto. Per tre anni era stato uno dei posti più calmi della Cecenia, nonostante la vicinanza con il grande villaggio di Vedeno, feudo del clan Bassaiev. Ma quella primavera era stato tutto un susseguirsi di tragedie. Una volta un’esplosione, un’altra un bombardamento, un giorno la morte di alcune ragazzine, un altro l’uccisione di miliziani ad opera di sconosciuti…
Magomed, il fratello di Khumid, soffriva molto del deterioramento della situazione al distretto. Era arrivato persino a dire che ormai si vergognava di servire i federali. A volte, a casa, esprimeva ciò che davvero pensava: “Si vendicano su Shatoi per l’11 gennaio, per quei dieci soldati del GRU che sono in carcere”.
Su questo, del resto, gli abitanti di Shatoi non avevano alcun dubbio. Solo i vecchi, ingenuamente, ne erano sorpresi: “Hanno cominciato loro. Hanno sparato alla nostra gente e l’hanno bruciata, e ora ci perseguitano. Perché? Dovevamo forse stare zitti? Non dovevamo chiedere aiuto alle autorità?”
Ma questa guerra si basa sul “principio” della responsabilità collettiva. Siccome Bassaiev e Khattab hanno marciato sul Daghestan, tutti i ceceni sono colpevoli, quindi bisogna “massacrarli nei cessi.” Se alcuni edifici saltano per aria a Mosca , è “colpa dei ceceni”, anche se i responsabili non sono mai venuti fuori…
Questa cosiddetta responsabilità collettiva si manifesta a tutti i livelli: in Cecenia, esistono zone di “ceceni buoni” e zone di “ceceni cattivi”. Così Argon o Staryie Ataghi sono continuamente oggetto di spedizioni punitive in quanto “covi di banditi”. Allo stesso modo, Shatoi aveva “sbagliato” contro i federali e doveva essere punita…
Ma quella in atto era più di una semplice punizione. Le esplosioni e i bombardamenti non erano sufficienti. Era evidente che gli uomini del GRU volevano terrorizzare gli abitanti, ridurli a non sapere più cosa fare per proteggere i propri cari, a non poter indovinare da dove sarebbe arrivato il colpo, farli morire d’angoscia. Non è una divagazione della mia fantasia. Questo concetto, basato su operazioni punitive di massa effettuate secondo una strategia e una tattica raffinata, mi è stato illustrato più volte da generali e colonnelli di Khankala, fedeli discepoli del generale russo Ermalov che era riuscito a sterminare quasi completamente i ceceni durante le guerre del Caucaso del XIX secolo.
Ai federali si poneva un altro problema: a chi dare la colpa, per fare più male possibile? La logica punitiva esige un sacrificio, soprattutto, da parte dei colpevoli. “Ti perdono se ripari al tuo sbaglio con il sangue”: questo è il sacrificio più dolce, il più ambito. Non pensate che idee simili appartengano al passato. Sono tuttora in voga: si esercita una forte pressione sul colpevole, che rimane come un pesce appeso all’amo a riflettere sulla propria sorte. Quando finalmente ha capito quello che si vuole da lui, viene “sganciato” e lui esegue…
In marzo, Vitali Nevmerjiski aveva smesso di andare in visita a casa dei Mansuraiev, a Urd-Yukhoi. Dal canto suo, Magomed non aveva più voglia di invitarlo. Khumid vedeva che suo fratello aveva l’aria sempre più cupa e oppressa, che era diventato irritabile e solitario come non mai. Khumid sentiva che le nuvole si stavano addensando sopra la loro testa ma non riusciva a prevedere dove sarebbe scoppiato il temporale.
A volte Magomed accennava al fatto che Nevmerjiski sbagliava, che commetteva un errore dopo l’altro e che tutto questo avrebbe portato a una disgrazia
[…] Un giorno, verso il 20 aprile, quando tutta la vegetazione sulle montagne era in fiore, Magomed era tornato a casa di buonora, come faceva in passato. Aveva raccontato a Khumid che Nevmerjiski gli aveva chiesto un favore personale e che lui aveva promesso di aiutarlo. Gli disse di avere avuto con il maggiore una conversazione sincera che aveva dissipato tutti i dubbi sul suo conto. Il 25 aprile Magomed aveva preso la macchina di famiglia, una Niva, ed era partito. Al fratello aveva detto che doveva portare Vitali a Mozdok, a prendere un volo per la “metropoli”, e che sarebbe tornato il giorno dopo…
Era l’ultima volta che si vedevano. Quel giorno Khumid aveva salutato il fratello, già al volante della macchina, con un cenno della mano. Magomed non era più tornato.
Non c’è niente di peggio che una menzogna prolungata. Il malcapitato che si trova vittima di una menzogna del genere sembra una mosca prigioniera della ragnatela, che si dibatte, sola, davanti allo sguardo divertito di chi l’ha catturata. Dall’inizio della seconda guerra cecena, moltissimi carnefici si sono esercitati in questo tipo di supplizio. Quasi tremila famiglie in Cecenia, cioè venticinquemila tra bambini, vecchi e donne, continuano a non avere notizie dei loro cari, rapiti dai militari russi. Il loro destino è di non avere alcuna informazione. Giorno e notte queste famiglie cercano segni, seguono tracce, interpretano notizie parziali lasciate trapelare dagli inquirenti, si nutrono di leggende e pettegolezzi. I supplizi descritti nei romanzi gialli sono poca cosa in confronto alla tortura di non sapere niente. Nessuno chiede riscatti, nessuno prova a mettersi in contatto con le famiglie, nessuno fa indagini o si interessa di questi casi. Il sistema giudiziario si accontenta di dire che non ne sa niente… Cosa fare, allora? Come vivere? Come agire?
La famiglia di Mansuraiev è entrata a far parte di queste tremila famiglie di scomparsi. Il padre, Abdurakim, è molto vecchio: questo veterano della seconda guerra mondiale, che ha combattuto a Stalingrado e forzato il passaggio della Vistola, mi accoglie con gentilezza nella sua casa di Urd-Yukoi. È buio e piove. Siamo a settembre, sono passati cinque mesi dalla scomparsa di Magomed. Il vecchio non piange, non si lamenta, parliamo tranquillamente del più e del meno. Quando evochiamo il passato, nei suoi occhi si accende una scintilla, cerca le sue decorazioni in un cassetto e le dispone sul divano: è fiero di aver partecipato a una guerra giusta, è con questa convinzione che ha educato i suoi figli, perché combattano per la giustizia, perché agiscano, perché non siano vigliacchi…
Ma gli occhi del vecchio padre si spengono non appena deve confessare che forse proprio questa educazione è costata la vita a suo figlio. Abdurakhim è un uomo saggio: non crede che lo rivedrà mai vivo, anche se a casa tutti fanno finta di aspettare il suo ritorno.
“L’hanno ucciso”, dice il vecchio. “Sennò si sarebbe fatto vivo. Dovunque fosse.”
[…] “Lo abbiamo cercato dappertutto. Dappertutto! Non può neanche immaginare il numero di domande che abbiamo inoltrato”, ripete Khumid, facendomi vedere una pila di fascicoli. “Nessuna traccia, è come se fosse svanito nel nulla con tutta la macchina.”
La storia del rapimento di Magomed è insieme banale e straordinaria. È banale perché chiunque può sparire nella Cecenia di oggi, che si tratti di un fedele collaboratore dei federali o di un seguace di Maskhadov. Ed è straordinaria perché questo vicecomandante militare non è scomparso su una strada deserta, ma in un luogo accuratamente sorvegliato, all’aeroporto militare della città di Mozdok, nell’Ossezia del Nord, e dopo aver ricevuto un lasciapassare dallo stesso posto di controllo dell’aeroporto. Vitali Nevmerjiski aveva chiesto a Magomed di accompagnarlo perché voleva andare a Nijni Novgorod da sua moglie. Senza Magomed, il viaggio da Shatoi a Mozdok sarebbe stato interminabile.
Come tutte le famiglie degli scomparsi, Khumid aveva fatto le proprie indagini. Era riuscito a stabilire con certezza che Magomed non aveva lasciato l’aeroporto dopo aver accompagnato Vitali, perciò era lì che era stato rapito. Aveva anche scoperto che il maggiore non aveva raggiunto la moglie, ma era rimasto a Mozdok per tutto il periodo del suo “permesso”. Poi era tornato a Shatoi, e di fronte alla famiglia Mansuraiev, disperata, aveva fatto finta di essere all’oscuro di tutto…
“Quindi a Mozdok il maggiore ha attirato Magomed in una trappola? A che scopo?”, chiedo.
“Volevano rapirlo ed eliminarlo”, risponde Khumid con fermezza.
“Perché?”
“Nevmerjiski sapeva che Magomed aveva capito cosa stava succedendo con quelli del GRU. Secondo mio fratello, loro avevano inchiodato Vitali per la storia dell’11 gennaio e gli avevano fatto a pezzi il morale per convincerlo a unirsi alle loro spedizioni punitive su Shatoi. Di conseguenza, l’esistenza stessa di Magomed era diventata un problema. È la prima ipotesi. La seconda è ancora più semplice: forse, per caso, mio fratello è stato testimone di uno di questi crimini, e quelli del GRU hanno decretato la sua eliminazione”.
Khumid prosegue parlando della tradizione cecena della vendetta, poi parla di nuovo di Nevmerjiski. “Tergiversa, mi racconta stupidaggini, ma più sfugge alle domande e più sono convinto della sua colpevolezza. Che devo fare? Perdonarlo? E così tradire mio fratello? Non posso”.
“Il maggiore non gli sfuggirà”, ripetono lugubri le donne di Shatoi. “Prima o poi…”. Quel “prima o poi” mi rimane in testa come un chiodo fisso.
[…] A gennaio condividevamo le stesse idee. Più tardi, non avremmo avuto più niente da dirci. A Shatoi, nel settembre 2002, ho intravisto Vitali da lontano. Era evidente che si era messo a bere. Il suo viso era diventato molle, stava maltrattando alcuni soldati che trasportavano casse di munizioni. Avevo provato un senso di nausea. Quanto può degradarsi un uomo per ottenere il perdono dei suoi?
La scomparsa di Magomed fu il preludio di altri drammi. Il 4 agosto il villaggio di Urd-Yukhoi venne bombardato all’improvviso dai carri del 291mo reggimento di Barzoi (dove, durante l’istruttoria, erano stati imprigionati gli autori del dramma dell’11 gennaio 2002). Erano circa le sette di sera. Le granate caddero dentro il Lago Blu, nel parco naturale di Argon, la cui superficie si ricoprì di un’enorme quantità di pesci morti, e nell’orto della pensionata Zainap Khajimuratova e di sua figlia Khava, maestra del villaggio. L’orto era diventato un enorme cratere e la casa era ridotta un colabrodo.
“Siamo rimaste vive per caso”, dice Khava mostrando il paesaggio lunare che c’è ormai al posto dell’orto.
Il giorno dopo Khumid Mansuraiev, capo dell’amministrazione di Urd-Yukhoi, si era recato alla caserma per avere spiegazioni dal comandante. Quest’ultimo, senza provare a trattenere il riso, aveva risposto che non era colpa sua: Khankala gli aveva dato ordine di bombardare Urd-Yukhoi perché era stata rilevata la presenza di boieviki.
“Dove, nell’orto di una pensionata? Nel lago?! Mi aspettavo qualcosa del genere”, spiega Khumid, “mi aspettavo una disgrazia per Urd-Yukhoi e per tutto il distretto di Shatoi. Siamo vittime di provocazioni continue”.
Il giorno stesso un unità aerotrasportata dello spetznaz era atterrata vicino al villaggio di Malyie Varandy. Le truppe bevevano vodka e sparavano in aria per divertirsi. L’eco della montagna faceva riecheggiare gli spari fino a qualche chilometro di distanza.
La tragedia che avvenne il 6 agosto era stata anticipata dalle agenzie d’informazione e dai canali televisivi controllati dallo Stato: secondo quei media, le truppe federali si aspettavano per quel giorno un violento attacco dei boieviki, perché era l’anniversario della ripresa di Grozny da parte degli indipendentisti durante la prima guerra cecena.
E puntualmente, nel primo pomeriggio del 6 agosto, la televisione annunciò: “I timori dei militari sono stati confermati: un camion che trasportava diciassette ausiliari ceceni, distaccati presso il centro di comando del distretto di Shatoi, è saltato su una bomba comandata a distanza. Nell’esplosione hanno trovato la morte dieci persone, altre sette sono rimaste ferite”.
La televisione diceva che il capo dello Stato era stato immediatamente informato dell’accaduto e che aveva dato ordine di catturare i terroristi… Secondo la stessa fonte, i militari avevano risposto al presidente che non avrebbero risparmiato i loro sforzi.
Il 12 agosto, i generali del Gruppo unificato delle truppe in Cecenia annunciarono in televisione che i colpevoli erano stati eliminati. Tutti i telegiornali mostrarono i corpi dei terroristi uccisi durante la loro fuga nelle foreste di Urus-Martan.
Naturalmente, da parte della popolazione russa che non conosce la geografia della Cecenia, l’informazione non fu messa in dubbio. Ma gli autoctoni e chi come me conosce bene questo paese, sanno che la strada che da Shatoi va verso la foresta di Urus-Martan passa obbligatoriamente da Malyie Varandy. Cioè proprio dove erano state sistemate le truppe mandate appositamente per impedire “l’avanzata” dei boieviki!
Questo “dettaglio” inquietante mi spinse a tornare a Shatoi: volevo capire quello che era successo veramente.
“Tornavo a casa. Il camion che trasportava i nostri ragazzi saliva piano, davanti a me. Li ho salutati con la mano, loro mi hanno gridato qualcosa di buffo, li conoscevo tutti”, racconta Yakha Khubaieva, una giovane donna di trentatre anni, incinta e madre di due bambini, che abita a cinque metri dal luogo dell’esplosione. “Accanto a me camminavano due ragazze, Aminat e Petimat Varaiev, insieme alla loro nonna. Anche loro avevano fatto un cenno con la mano ai ragazzi. Ridevano tutti… Io ho deciso di prendere una scorciatoia tra le case. Un minuto dopo ci fu l’esplosione. Rimasi pietrificata. Subito dopo sono cominciati gli spari. Io ero immobile. Le pallottole mi fischiavano vicino. Era un caos totale. Non lontano da me giacevano corpi insanguinati, nella stessa strada dove i miei bambini vanno sempre a giocare…”.
[…] Il tenente Arbi-Kadaiev, comandante di una compagnia di pattugliamento della milizia locale, si trovava da quelle parti ed era stato il primo ad accorrere sul luogo dell’esplosione. “Ho visto uno spettacolo terrificante”, racconta. “Il suolo era cosparso di pezzi di corpi umani. Le donne accorrevano dal mercato per vedere se tra le vittime c’erano i loro figli. Abbiamo cominciato a soccorrere quelli che erano ancora vivi. Neanche il tempo di trasportare un ferito al posto di comando, e subito è partita un raffica di fucileria. Sarà stato quattro o cinque minuti dopo l’esplosione. Sono sicuro che sparavano apposta su di noi, visto che eravamo in uniforme. Cercavano deliberatamente di farci fuori, gridando ‘urrà!’ a ogni colpo…”.
Poi aggiunge: “Ora che sono stato testimone di questa atrocità, mi aspetto ogni notte che vengano a casa mia per uccidermi”.
Tutti i sopravissuti si erano gettati a terra… Chi sparava, allora? Chi tirava raffiche di armi automatiche sulle donne che si erano precipitate qui in ansia, sulle giovani Aminat e Petimat, sul pediatra di Shatoi, Ilias Salghirijev, che si trovava nei dintorni e si era precipitato a soccorrere i feriti, sul tenente colonnello Andrei Kretov, del centro di comando locale, e sul secondo tenente colonnello Viktor Okolelov, che erano accorsi ad aiutare le vittime dell’esplosione?
Sul momento, le persone che subivano il fuoco avevano pensato che fosse un agguato organizzato dai boieviki. Ma presto si erano rese conto che i federali avevano piazzato una batteria mobile sul tetto del centro di comando e un’altra sulla collina vicino al cimitero. Bastavano ampiamente a far fuori tutti…
Il tenente colonnello Okolelov si era precipitato verso la prima batteria. Aveva urlato al tiratore di fermarsi, ma quello continuava… Allora, Okolelov l’aveva afferrato per le gambe e spinto di lato per allontanarlo dalla sua arma… Il ragazzo gli era sembrato strano… Forse era drogato. La stessa cosa era successa all’altra postazione, dove il soldato Shavaji Midigo era riuscito a bloccare il tiratore e a fermare il massacro.
Le vittime erano state seppellite prima del calar della notte, per consuetudine ma anche a causa del calore estivo. E per via della stessa temperatura torrida, anche le finestre del centro di comando si erano aperte, permettendo a tutto il villaggio a lutto di sentire gli echi dei bagordi dei soldati. “Abbiamo tirato giù un po’ di cechi!”, gridavano le voci festanti…
[…] Il 12 agosto il generale Makarov, comandante ad interim del Gruppo unificato delle truppe del Caucaso del Nord, e il generale Kiziun, comandante militare della Cecenia, giunsero a Shatoi in elicottero accompagnati da alcune troupes della televisione russa. È così che fanno i nostri militari quando vogliono comunicare al presidente e al paese qualcosa di straordinario.
Questi alti papaveri dell’esercito ordinarono di riunire tutte le famiglie che il 6 agosto avevano perso dei figli. I generali dettero loro la seguente spiegazione: erano stati i boieviki a mettere la bomba telecomandata e ad azionare l’esplosione, ritirandosi lo stesso giorno nella foresta (viene da chiedersi, allora, che cosa facesse il reggimento arrivato a Shatoi la sera prima!). Il 10 agosto le truppe speciali li avevano scoperti ed eliminati nella foresta di Urus-Martan. Addosso gli avevano trovato i passaporti, la paga che presumibilmente avevano ricevuto per l’attentato, cioè 3500 dollari falsi, volantini wahabiti e una mappa del villaggio di Shatoi con una croce sul punto dell’esplosione. Due di questi terroristi erano morti subito mentre il terzo, appena prima di morire, aveva confessato il delitto.
La bugia, raccontata da due generali, lasciò la gente a bocca aperta. Quale criminale sarebbe mai fuggito dal luogo del delitto portandosi dietro la mappa che prova la sua colpevolezza, tanto più in Cecenia dove controlli e perquisizioni personali sono all’ordine del giorno? E i dollari falsi?!
Ma i due capi militari continuavano come se niente fosse: elogiando la “saggezza popolare” dei ceceni, li esortavano a “saldare i conti” con le famiglie dei terroristi abbattuti. Un appello inequivocabile alla vendetta, un invito ad applicare la legge delle montagne al posto della Legge.
Dobbiamo dedurne che questi generali poco brillanti, anche se onnipotenti in Cecenia, siano stati i responsabili dell’esplosione e della sparatoria sui superstiti di Shatoi? Assolutamente no. Anche loro eseguivano soltanto un piano concepito in alto loco.
Gli abitanti ascoltarono i responsabili russi fino alla fine, chiedendo solo di poter ricopiare le informazioni contenute nei passaporti dei tre “terroristi”. Si chiamavano Umar Ozdamirov, Supian Chabaiev e Magomed Magomadov.
La sera stessa, a conferma del racconto dei generali, le più importanti reti televisive diffusero un primo piano dei cadaveri dei tre boieviki che si pretendevano uccisi nella foresta vicino a Urus-Martan. I “terroristi” avevano la barba lunga caratteristica dei wahabiti, su cui la propaganda ufficiale fa ricadere la responsabilità di tutto ciò che subisce il popolo ceceno. L’intero Stato si era bevuto la storia, comprese le troupes televisive convocate sul posto. Ma la gente di Shatoi, per quanto immersa nel proprio lutto, sollevò qualche dubbio. I nostri generali non avevano tenuto conto del fatto che l’antica usanza della vendetta esige, prima di tutto, che la colpevolezza di quella o quell’altra persona sia provata in modo inconfutabile. In caso di errore seguito dalla morte di un innocente, i parenti del vendicatore subirebbero una punizione esemplare.
Così, le famiglie delle vittime del 6 agosto cominciarono a indagare per conto loro. Non fu una ricerca lunga. Per prima cosa cancellarono con un tratto di penna il punto interrogativo dopo la parola “provocazione”. Ormai ne erano sicuri. Uno degli “assassini barbuti” che era stato mostrato in fotografia, Supian Chabaiev, di Grozny, era originario di un villaggio vicino a Shatoi. La sua famiglia vive ancora lì, e anche lui vi era conosciuto da tutti. Il mufti di Cecenia, Shamaiev, conosce tutta la famiglia dei Chabaiev, e sull’onestà di Supian il suo assistente è pronto a mettere la mano sul fuoco…
Il 14 agosto arriva a Shatoi il padre di Supian, trasferito da alcuni anni in Calmukia, una repubblica autonoma vicina alla Cecenia. Il vecchio Chabaiev raccontò la storia seguente. Il 30 luglio 2002 suo figlio Supian era stato rapito da militari mascherati nel centro di Grozny, alla presenza di numerosi testimoni. Di conseguenza non poteva, in nessun caso, aver partecipato all’attentato del 6 agosto a Shatoi. Il padre, come tutti, aveva visto il passaporto di Supian mostrato dai federali in televisione. Affermò con foga che il cadavere mostrato in televisione non era quello di suo figlio. Non era la sua faccia. E soprattutto suo figlio non portava la barba, fatto confermato dalla stessa moglie di Supian. La mattina del 30 luglio, era uscito di casa accuratamente rasato, come al solito.
A Grozny, l’incrocio tra il viale della Rivoluzione e la via Cernycevski è un posto molto frequentato per la presenza del capolinea degli autobus. La piazza è letteralmente invasa da taxi, camionette, pullman. Il 30 luglio 2002, la piazza era stata circondata in un batter d’occhio da un gruppo di uomini armati, mascherati e in tuta mimetica giunti a bordo di due pulmini bianchi senza targa, che qui chiamano “gazzelle”.
Al loro arrivo, la gente si era messa a correre da tutte le parti: vivere con la costante minaccia di una retata acuisce l’istinto di sopravivenza, e tutti sanno che le “gazzelle” bianche sono sempre portatrici di disgrazie. Ovunque si fermino, le persone spariscono senza lasciare traccia.
In genere vanno in giro di notte. Scaricano gli uomini in tuta mimetica vicino a una recinzione individuata prima, la scavalcano senza fare rumore e poi fanno irruzione nelle case. Le macchine continuano a girare per il quartiere, per non attirare l’attenzione, e nel frattempo i militari arrestano le persone segnate sulla loro lista dopo averne immobilizzato i familiari. Alla fine, caricano il loro bottino sulle “gazzelle” ritornate sul posto al momento giusto. Molte persone sono scomparse secondo questo copione.
In totale erano state sette le persone rapite dal commando mascherato. Perché questi arresti? Che è successo dopo? E perché solo tre di questi sette hanno “perpetrato un atto terroristico”?
La differenza era stata frutto di una selezione. Le “gazzelle” avevano portato i prigionieri negli edifici della direzione del FSB per la Cecenia. La sera stessa e il giorno dopo, alcuni “intermediari” – infami locali “in contatto” con i servizi segreti – avevano bussato alla porta delle famiglie. Avevano insistentemente consigliato ai familiari di non fare scandali o denunce per la scomparsa del loro parente, promettendone la rapida liberazione in cambio di un riscatto.
Le visite non stupirono più di tanto i familiari degli scomparsi. Il commercio di esseri umani è cosa abituale in Cecenia: questa gentaglia è coinvolta in innumerevoli crimini e nelle zone di “non-diritto” esiste un fiorente traffico di schiavi e cadaveri… Tre famiglie avevano accettato di “collaborare” con i servizi segreti e si erano messe ad aspettare, invano, un segno da parte loro. Le altre quattro, invece, avevano rifiutato l’offerta e sporto una denuncia ufficiale al tribunale di Grozny.
I Chabaiev, gli Ozdamirov e i Magomadov, accettando il compromesso, avevano di fatto condannato i loro cari a essere esibiti come i boieviki che avevano commesso l’attentato. Il rapimento del 30 luglio, in realtà, aveva avuto uno scopo molto semplice: trovare “materiale umano” da utilizzare per la provocazione del 6 agosto anticipata dalle televisioni.
Ne ebbi conferma in seguito, al tribunale di Grozny. Certo, non in maniera diretta: “Non s’immischi di questo caso. È un consiglio da amico”. Il tribunale aveva avuto il tempo di raccogliere un bel po’ d’informazioni sull’argomento, visto che erano già passati dieci giorni dal quel 6 agosto. I magistrati bevevano nervosamente cognac o vodka e mi confidavano: “Personalmente non ci vogliamo entrare. No, no… Non ci faccia domande. Vogliamo vivere”.
Ciò nonostante, io avevo voglia di venire a capo di questa brutta storia a puntate. Chi sono questi banditi che si spostano a bordo delle “gazzelle”? Da chi prendono ordini? Perché tutto è successo esattamente in quel posto e in quel modo?
I ceceni sanno che le “gazzelle” vengono spesso usate dagli agenti del GRU per le loro operazioni. In linea generale questi agenti hanno carta bianca: hanno licenza di uccidere, a condizione di non lasciare tracce. Eliminano quelli che sospettano di wahabismo, banditismo, terrorismo o altri misfatti. Sono altamente specializzati e agiscono come vogliono, pur se finanziati dalle casse dello Stato. Non riconoscono che un dio sopra di loro: il capo supremo dell’esercito Vladimir Putin.
Ai vertici della piramide politico-militare, quelli del GRU vengono considerati i migliori “medici sanitari della foresta” cecena ma, non essendoci limiti imposti, da un pezzo alcuni di loro si sono trasformati in banditi in uniforme. Sembra che siano responsabili di molte provocazioni organizzate in territorio ceceno con l’avallo del comando supremo che li “copre”, ma non sono gli unici: in Cecenia i boia abbondano. Difatti alcuni dettagli, come ad esempio la paura folle che trapelava dai magistrati, stanno a indicare che l’operazione battezzata “attentato terroristico a Shatoi del 6 agosto 2002”, seguita dalla cattura dei cosiddetti “terroristi”, sarebbe stata organizzata insieme agli uomini del ROSNO.
Questa sigla, poco conosciuta in Russia, significa “Sezione Regionale di Destinazione Speciale”. Si tratta di un reparto del FSB presente in ognuna delle sue basi, dalla sede principale fino all’ultimo distretto. Ma se al generale Sergei Babkin, capo del FSB in Cecenia, chiedi cos’è il ROSNO, ti risponderà senza esitare che non lo sa. E i suoi colleghi diranno lo stesso. Perché il ROSNO, in realtà, è una struttura segreta.
Ne fanno parte persone dall’apparenza molto normale. Ufficialmente lavorano come elettricisti, montatori, facchini, ecc: gente tranquilla e mobile che non si fa notare. Tra loro ci sono molti caucasici, anche ceceni. Escono dalla loro base (c’è n’è una, in particolare, presso la sede della direzione del FSB nella Repubblica cecena) di notte e tornano la mattina presto.
Anche loro, come gli uomini del GRU, sono professionisti protetti dallo Stato. Costituiscono uno di quegli “squadroni della morte” che imperversano nella zona della “operazione antiterrorismo”. Le “gazzelle” sono uno dei loro mezzi di trasporto. Nell’episodio di Shatoi probabilmente hanno aiutato il GRU, anche se non si capisce bene la suddivisione esatta dei ruoli.
In passato gli uomini del ROSNO avrebbero a più riprese fornito “materiale umano” per “operazioni speciali” in Cecenia. Si ritrova la loro impronta in tantissimi casi oggetto di campagne propagandistiche ufficiali, come attentati terroristici, rapimenti oppure “il passaggio della frontiera russo-georgiana dei boieviki”. In Cecenia il loro “biglietto da visita” si riconosce subito: se un’indagine ristagna e non arriva a conclusione nonostante le numerose prove e testimonianze, significa che in qualche modo c’entrano quelli del ROSNO.
Rimane da spiegare un ultimo punto. Perché scegliere Shatoi per commettere un attentato che si vuole spacciare come preparato dai boieviki? Facile: l’iniziativa è stata sicuramente del GRU. I suoi agenti avevano passato un “ordine speciale” perché ce l’avevano con Shatoi fin dai fatti dell’11 gennaio 2002. Dovevano riuscire a spezzare il morale del maggiore Nevmerjiski, che infatti non era riuscito a resistere alle loro pressioni ed era rientrato nei ranghi. A sua volta, anche lui avrebbe commesso ulteriori infamie causando la morte di parecchia gente, tra cui il suo “amico” Magomed Mansuraiev. La tragedia del 6 agosto era stata solo l’apice di un lungo periodo sanguinario.
A chi servono queste sporche provocazioni? Chi le concepisce e perché? A prima vista la risposta è semplice. Questi orrori sono una manna dal cielo per chi si augura che la guerra continui, perché solo la guerra giustifica la loro presenza in Cecenia.
Ma a ben guardare, la risposta merita di essere più sfumata. Il nostro paese ha tradizioni storiche molto particolari. Per decenni abbiamo vissuto sotto un regime in cui le provocazioni più vili erano l’essenza stessa della vita politica. Poco importa in nome di quali “grandi idee” quelle azioni venissero commesse. Quel che conta è che erano una realtà. Ed ecco che dopo gli anni tumultuosi della perestroika e il regno burlesco di Boris Eltsin, il paese ha affidato il suo destino a rappresentanti di questo passato che non riescono a pensarla diversamente. È la loro natura profonda che non si può cambiare.
Parlo di Vladimir Putin e del suo staff, che include sempre più persone del FSB. Oggi, che lo si voglia o no, gli artigiani del lavoro sporco sono usciti dal dimenticatoio per agire secondo modelli che considerano giusti e degni degli obiettivi che sono stati loro assegnati. Innanzitutto fare in modo, come desiderano i superiori, che la guerra continui, nell’interesse diretto delle persone più in vista di questo paese. Ma anche per vendicarsi di tutti quelli che non hanno ancora “pagato”.
Le ostilità poi si moltiplicano per i motivi più diversi, ad esempio i gradi o i premi ai quali esse permettono di accedere, come anche per il caos provocato da qualunque guerra che permette di arricchirsi in pieno disastro, o per il petrolio illegale, o per un sacco di altre cose. Per soddisfare tutte le diverse aspirazioni, oggi in Cecenia c’è gente che non esita a fare le cose più truci.
In conclusione, qual è il bilancio dell’ultimo atto della tragedia di Shatoi? Le sette persone rapite a Grozny il 30 luglio sono sempre introvabili, sono scomparse, non c’è neanche un cadavere. Shatoi è in totale stato di shock. La guerra in Cecenia continua. È quello di cui hanno bisogno le autorità. Il paese vive una volta di più secondo i modelli imposti dai servizi segreti, che ancora una volta sono al di sopra la legge. Noi russi continuiamo a seminare Putin per raccogliere Stalin. Non è una sensazione piacevole.
Mi chiedo spesso se sia possibile abituarsi all’idea che ci siano assassini al soldo dello Stato. Certo, tutti i grandi servizi di “intelligence” del mondo impiegano unità segrete per missioni speciali. Abbiamo tutti visto i film americani dove i vari James Bond s’infiltrano tra mafiosi e dittatori e, in nome della democrazia e della libertà, fanno fuori criminali di ogni tipo che la giustizia ufficiale non è stata in grado di catturare.
Ma da noi, certi killer di Stato si sono velocemente trasformati in infami di Stato che uccidono sommariamente su richiesta. I nostri killer di Stato non hanno ancora eliminato i numerosi capobanda e capi guerrieri ceceni. In compenso si sono affrettati a bruciare i corpi di una donna incinta e di altri civili innocenti e a far esplodere un camion con a bordo i migliori ragazzi del distretto di Shatoi. In Cecenia siamo caduti in un buco nero, abbiamo allevato una tale quantità di assassini cinici da coprire l’intero fabbisogno di killer a pagamento di tutto il pianeta. Mi assumo la responsabilità delle mie parole: una persona su due uccisa in Cecenia, a dir poco, è un civile abbattuto in condizioni di giustizia sommaria. Questo significa che migliaia di militari che hanno prestato servizio in Cecenia sono in realtà dei boia sistematici.
Un’anziana donna dal viso nobile riposa sul letto. È la madre di una vittima dell’esplosione del camion del 6 agosto 2002. È malata dal giorno del funerale, prega in ceceno. Chiedo una traduzione.
Medina, la maggiore delle sue figlie, mi dice che prega perché “l’odio che abita i nostri cuori dopo questa tragedia ci lasci”.
Come mettere fine a questa guerra, con il suo bagaglio di orrori quotidiani? Come si fermano le guerre?
Le guerre finiscono precisamente quando i nostri sentimenti di odio cedono il passo… Altrimenti, come tanti condannati a morte, aspettiamo il nostro turno, perché abbiamo affidato il nostro paese a persone che non hanno paura di sterminare i loro simili, innocenti.
Non si tratta della guerra senza quartiere contro il “terrorismo internazionale”, dove i “dettagli” non contano. Si tratta di capire quello che è successo a NOI. È di noi che si tratta. Della bestialità che ha invaso i nostri cuori. E dal cuore di questa Cecenia “pacificata” ho voglia di gridare: SOS!
Traduzione di Alberto Bracci
1 Servizio segreto militare russo [ndr].
2 Forze speciali russe [ndr].
Il testo qui riprodotto è parte del IV capitolo del volume di Anna Politkovskaja Cecenia, il disonore russo, di prossima pubblicazione presso Fandango Libri, per la traduzione di Alberto Bracci. Ringraziamo l’editore della gentile concessione.