Due concezioni della morte
Sergio Benvenuto
In alcuni suoi scritti Slavoj Zizek, celebre filosofo post-moderno, si è dichiarato a favore della pena di morte.1 Almeno, a favore del principio della pena di morte. Dice: l’opposizione alla pena capitale – anche quando proviene da postmoderni come Derrida ad esempio – deriva dalla concezione che Nietzsche denunciò come quella dell’Ultimo Uomo.
Agli occhi dell’Ultimo Uomo, infatti, non ci sono più grandi missioni storiche da compiere, non c’è nulla per cui valga la pena morire, il solo valore che conti è continuare a vivere – insomma, una posizione survivalist, sopravvivenzialista.
In un mondo in cui tutti i valori si sono relativizzati, il solo valore che risulti assoluto è la vita biologica – quindi il diritto del vivente a godere. Ma il valore universalizzabile è “soprattutto godere della vita oppure è “soprattutto che si goda nella vita”? I due comandamenti, per quanto possano sembrare implicati, non sono intercambiabili. Anzi, come vedremo, la loro diversità scandisce il dissidio etico oggi principale in Occidente.
Sarebbe facile replicare semplicemente a Zizek: “Invece proprio chi è disposto a rischiare la vita per un valore, come il Mahathma Gandhi ad esempio, giusto per questo può sentire una forte ripugnanza a toglierla agli altri; è ammirevole chi è disposto a dare la propria vita per una Causa, non quella degli altri!”
Ma non si tratta di argomentare contro Zizek sulla pena di morte, si tratta di capire fino a che punto egli colga nel segno quando dice che noi – a sinistra come a destra – stiamo confluendo nel nichilismo sopravvivenzialista dell’Ultimo Uomo. Fino a che punto tutti noi consideriamo la vita di ciascuno l’assoluto su cui ogni relazione – e ogni relatività – deve poggiare?
Molti hanno visto gli oscar 2005 dati a Mar adentro di Alejandro Amenábar e a Million dollar baby di Clint Eastwood come una rivincita culturale dell’Hollywood liberal dei diritti civili dopo il trionfo elettorale di Bush. Difatti i due film, lo spagnolo e l’americano, sembrano far propaganda al “diritto alla morte”: chi desidera morire, ha diritto di essere aiutato a farlo.
In realtà, si tratta di due film ben diversi. Il film spagnolo è in fondo una commedia, incentrata appunto sulla morte come diritto civile: Ramón, simpatico tetraplegico, per 28 anni chiede di essere aiutato a farla finita, e alla fine ci riesce – il film è a lieto fine. Ramón non viene descritto come un infelice, anzi: vive in una famiglia calda, ha amici e alleati, persino una fidanzata, pubblica un libro – è un uomo di successo. Proprio nella misura in cui ci appare equilibrato e sereno, la sua decisione di por fine ai suoi giorni ci rassicura, ci convince.
Il film di Eastwood invece è una tragedia che ci lascia perplessi e amareggiati. Da una parte il vecchio Frankie, allenatore e manager di pugili in una frustra palestra di Los Angeles, dall’altra Maggie, una ragazza che sogna attraverso il pugilato di tirarsi fuori da una squallida vita di cameriera di diner. Frankie porta trionfalmente Maggie fino alla finale del campionato femminile mondiale di boxe. Prima della vittoria finale però, Maggie viene colpita su un punto vitale e resta paralizzata dal collo in giù, per sempre. A questo punto chiede a Frankie – roso dal senso di colpa – di farla morire. Frankie lo farà e scomparirà lui stesso non si sa dove.
Il tutto in un’America incerta attorno alla soglia della povertà e senza lustro, scabra, poor white trash e neri frustrati, che sembra uscita da quadri di Edward Hopper.
Frankie e Maggie sono due esseri soli: non hanno coniugi né amanti, i loro parenti sono ingrati, odiosi o deludenti.I due protagonisti non si innamorano nemmeno l’uno dell’altro. La loro esistenza si riduce alla boxe, unica loro ragione di vita. Ma cosa spinge l’amazzone pugile a chiedere la morte? Dalla vita ha avuto ciò che voleva: il trionfo sportivo, viaggi, soldi – insomma danaro e gloria, anche se per lo spazio di un mattino. Pare l’applicazione della profezia di Andy Warhol: “nel futuro ognuno sarà celebre per quindici minuti”. Ma non è questo quel che vogliono i “ciascuno” delle masse sterminate in tutto l’Occidente, e anche oltre?
Molti aborriscono il film di Eastwood in quanto appare propaganda di destra – di quella vera, non la destra del Wall Street Journal. In effetti, il film è un encomio del guerriero di sapore medievale – ora, si è di destra quando si ha come modello il guerriero, ovvero l’eroe hegeliano che affronta la lotta a morte per il riconoscimento e il puro prestigio.2 Il guerriero è nobile perché mette in gioco la propria vita, e, se sopravvive, diventa il padrone secondo Hegel. Maggie è una guerriera che non sopravvive – comunque la sua lotta all’ultimo sangue per il riconoscimento l’ha combattuta. Il riconoscimento oggi si chiama glamour: danaro e ammirazione.
Anche Eastwood, come Zizek, sembra insomma evadere dalla filosofia dominante dell’Ultimo Uomo, secondo cui, non ogni vita vale la pena di essere vissuta. La vita è goduta solo quando la si può mettere a rischio per un ideale – anche se nel caso di Maggie l’ideale è narcisistico e non altruistico.
In effetti, gran parte dei film americani sulla boxe sviluppano una teoria psico-sociologica molto semplice: il boxer, un frustrato sociale incazzato nero, riesce a incanalare la propria rabbia in un percorso non auto-distruttivo sottomettendosi alle regole conviviali dello sport e del business. Ma in Million dollar baby la sublimazione sociosintonica non elimina il risvolto tragico della distruttività, che la vocazione gladiatoria dell’eroina alimenta.
Questa esaltazione del guerriero – che accetta di rischiare la propria vita – non è il tipo di etica di cui oggi si ha bisogno per portare avanti la guerra illimitata, interminabile, metastatica che Bush ha dichiarato al mondo non liberal-democratico? Dopo la pacchia dell’Ultimo Uomo – la vita come unico valore assoluto, indiscutibile, non negoziabile – sembra che l’Occidente tenda a farsi isomorfo al jihad, riattualizzando le concezioni guerriere alla Ernst Jünger o alla Jukio Mishima. Gli attentatori di Al Qaeda di Madrid del marzo 2004 dichiararono “voi amate la vita, noi amiamo la morte”. I fondamentalisti islamici ci disprezzano: noi, ebrei o cristiani, siamo dei codardi alcolisti che si sollazzano con donne promiscue, per noi conta solo vivere. I cristiani d’oggi sono gli Ultimi Uomini decadenti: poi ci sarà l’islam.
In un film danese attualmente in circolazione, Non desiderare la donna d’altri3 di Susanne Bier, Michael, un militare scandinavo, è fatto prigioniero da guerriglieri islamici in un paese orientale.
Costoro, ad un certo punto, gli ordinano di uccidere a colpi di bastone un suo commilitone, prigioniero anche lui, altrimenti la morte: pur di vivere, Michael fa quel che gli si chiede. Ammazza selvaggiamente il suo compagno. Ma una volta tornato a casa, dalla moglie e dalle figlie, diventa irriconoscibile: geloso, violento, ubriacone, insomma un altro uomo. Ha ucciso il suo compagno di prigionia per riabbracciare la moglie e le figlie, allora proprio queste tenta di uccidere… Michael non può più vivere semplicemente per vivere: siccome ha vissuto a costo di uccidere, potrà vivere solo uccidendo. Il suo dovere sembra essere ora insomma uccidere le persone che gli sono più care – anche se stesso – dato che non può più godere della vita.
Ma questo accade perché Michael è venuto meno all’etica del guerriero: questi non uccide mai l’amico per salvare la propria vita, appunto, il guerriero non vive a qualsiasi condizione. Il vero guerriero pensa solo a vincere la battaglia o la guerra, non a salvarsi la pelle. Se sopravvivere ha come costo la rinuncia al proprio onore, la vita sarà disonorevole, inqualificabile. In effetti l’onore, per il guerriero, è più importante della vita. Per Maggie il glamour era più importante della vita.
Sia la pellicola danese che quella di Eastwood sono davvero tempestive: ambedue ci riconciliano con l’etica del guerriero nell’epoca della guerra sconfinata, capillare contro l’islam. Come Zizek, ci invitano ad abbandonare l’assolutismo nichilistico dell’Ultimo Uomo, insomma, a metterci al livello etico dei nostri nemici.
Si dirà: ma nel fondo ogni religione, anche quando fa apologia della morte, non mira anch’essa, come qualsiasi altra cosa, a farci vivere felici? Prendiamo il caso più clamoroso, quello del kamikaze islamico: non si uccide forse perché ha così accesso gioiosamente a un’altra vita?
La morte, per i monoteisti, è solo un passaggio da una vita all’altra, quindi, si muore sempre e comunque per vivere. I credenti sarebbero come Socrate nel Fedone, quando, prendendosi la cicuta, dimostra agli amici quanto è bello morire! Ma io credo che questa sia solo razionalizzazione: di fatto, la stragrande maggioranza dei credenti teme la morte, né più né meno di chi non crede.
Il kamikaze invece odia sinceramente la vita, un po’ come Maggie quando, paralizzata in un ospedale, conclude che non vale la pena vivere così. Il kamikaze è un guerriero religioso che si uccide anche per protesta contro la vita, nella misura in cui la vita è una barriera al godimento: questa vita – dominata dal potere ebraico e cristiano – va spazzata via con rabbia perché ilgodimento trionfi.
Ed è qui la vera distanza tra l’Ultimo Uomo moderno, secolarizzato, e il martire o kamikaze: per il primo vita e godimento sono indissolubilmente legati, per il secondo invece no. Non solo perché il martire crede in un’altra vita dove vivere e godere coincideranno, ma anche perché sente questa vita proprio come resistenza sorda, intollerabile, al godimento.
Il punto è che mentre il fondamentalista islamico sceglie il godimento in cambio della vita, il fondamentalista cristiano oggi preferisce la vita al godimento.
La contrapposizione tra concezione dell’Ultimo Uomo e concezione del militante militarizzato non è riducibile alla classica differenza progressisti versus conservatori, oppure sinistra versus destra, ma la attraversa. Infatti, parte del mondo più conservatore pare aderire al primato dell’Ultimo Uomo.
Nel gennaio scorso i telespettatori italiani hanno potuto assistere a un memorabile duello tra due filosofi, ambedue cattolici, anche se ognuno a modo suo: Gianni Vattimo e Rocco Buttiglione. Due filosofi su opposte posizioni politiche. Vattimo, nietzscheano nichilista e omosessuale; Buttiglione integralista cattolico. Vattimo ha ripreso i temi classici della protesta laica: la chiesa cattolica tormenta la gente con il senso di colpa, condannando moralmente atti – dall’omosessualità alla ricerca sugli embrioni – che ognuno invece ha il diritto di fare liberamente. Il punto è che Buttiglione, reagendo all’attacco, si è ben guardato dall’evocare l’autorità trascendente della Norma. Ha invece usato argomenti che Zizek direbbe da Ultimo Uomo. Ha detto in sostanza che la chiesa è sempliciotta! Come la gente comune, la chiesa pensa che la cosa migliore sia che un uomo si innamori di una donna, se la sposi, le faccia dei figli, e cerchi di andare avanti con lei per godersi una vita tranquilla. Ha persino evocato – come conseguenza nefasta del nichilismo contemporaneo – la drammatica diminuzione delle nascite in Italia e quindi “chi pagherà le pensioni dei futuri anziani?” Al che Vattimo ha ritorto con una battuta degna di entrare nel florilegio della battute famose: “Allora bisogna innamorarsi per amore dei conti dell’INPS?”
Persino un cattolico trascendentalista come Buttiglione non fa appello alla volontà di Dio ma aun ideale edonistico di quieto vivere: “Se tutti vivessero da cattolici, la vita sarebbe più comoda e piacevole! Se si crede in Dio, tutti avranno una vecchiaia serena!” Nell’epoca del cristianesimo mediatico, non si promette più il paradiso nell’altra vita, si promette la pace in famiglia e pensioni sicure in questa vita. Persino la fede viene venduta, attraverso gli schermi, come una merce concorrenziale. In un’epoca in cui domina il free market, anche la religione deve essere competitiva con i luccicanti prodotti secolarizzati.
Il dibattito suscitato dal caso di Terri Schiavo – la donna al centro di uno scontro colossale in Florida tra chi voleva metter fine al suo coma e chi voleva prolungarlo senza limiti – non conferma la conversione anche della cultura conservatrice all’ideologia dell’Ultimo Uomo? In questo caso, come in altri simili, si sono contrapposte anche posizioni sfumate e complesse. Ma, nell’insieme, svettano due visioni polari: una che chiamerei “soggettivista”, un’altra “biocentrica”. Si identifica la prima con una posizione liberal, e la seconda con una conservative, ma non è sempre detto.
Il “soggettivista”, di solito, è favorevole all’aborto, all’eutanasia e alla ricerca sugli embrioni; è contrario, invece, all’accanimento terapeutico e alla pena di morte, tende a rifiutare la guerra anche se per giusti motivi. Il “biocentrico” invece è contrario all’aborto, all’eutanasia e alla ricerca sugli embrioni, è favorevole all’accanimento terapeutico e alla pena di morte, è entusiasta della guerra per motivi (a suo parere) giusti.4 C’è una coerenza, un tessuto logico, che tiene assieme queste posizioni? Il dibattito etico oggi spesso viene degradato a polemica giornalistica: ci si limita a rimproverare all’avversario le sue incoerenze – ad esempio, si denuncia il fatto che il presidente Bush sia pronto a salvare la pseudo-vita di Terri ma non quella dei vari condannati a morte in America, o dei soldati in Iraq. Ma rimproverare all’altro incoerenze etiche o logiche è un’ingenuità: in fondo, ogni visione del mondo è coerente, il difficile è scoprire la “logica” che presiede a ciascuna.
In effetti, il biocentrico considera sacra non l’anima, la coscienza, ma la vita biologica nuda e cruda: il dato della vita – o meglio, la vita data – è ancor più importante del vissuto soggettivo. Per questa ragione il concepito, anche se ancora non ha un sistema nervoso, va difeso come qualsiasi altra vita umana; e la vita quasi vegetativa di Terri andava mantenuta, anche se la sua anima non c’era più. Inutile dire che il suicidio va assolutamente impedito: l’importante è che chiunque viva, non tanto che voglia vivere. Non a caso questa posizione si auto-etichetta come pro-life: occorre difendere la vita umana in quanto vita, non la soggettività. A una condizione però: che questa vita non sia moralmente colpevole. Allora, in questo caso, il soggetto perde il diritto alla vita: lo si può uccidere legalmente, in un penitenziario o in una guerra, se è dalla parte sbagliata. La posizione biocentrica assolutizza la vita solo quando la soggettività colpevole non la relativizza. Il bios è divino, ma se una soggettività si ribella alla vita (togliendo a un altro la vita sacra), questo soggetto annulla la divinità anche della propria. Non è quindi propriamente una filosofia dell’Ultimo Uomo: è una filosofia della Vita Prima. La vita va assolutamente difesa perché, in fondo, non è scelta da chi vive: altri – i genitori, Dio – l’hanno scelta per lui.
Per la posizione “soggettivista” conta invece il soggetto che desidera, sente e decide: nel conflitto d’interessi tra il feto del primo mese e la madre, è l’interesse della madre – soggetto consapevole – a prevalere. Nella misura un cui Terri Schiavo è ridotta a mera vita biologica, è già morta come soggetto: la sua vita non ha più valore. La volontà del soggetto è insindacabile: se vuole farla finita, la sua decisione non è contestabile. Ma se la soggettività (non la vita) è sacra, essa non va eliminata nemmeno nel caso che abbia commesso un crimine, comune o politico: nella misura in cui il condannato è un soggetto, è intoccabile. Divina è quindi la soggettività: eliminare un Self è comunque un crimine. È una filosofia dell’Ultimo Self.
In definitiva, per il biocentrico è sacra la vita in quanto è data dall’Altro; per il soggettivista è sacra la volontà del soggetto in quanto questa proviene da Sé. A una religione (autoritaria) dell’Altro si contrappone l’autorità (religiosa) del Sé. Si tratta di due facce dell’epoca dell’Ultimo Uomo: in una conta solo la vita biologica che va mantenuta a ogni costo, nell’altra conta solo la volontà cosciente che va mantenuta a ogni costo.
Ma la guerra che parte dell’islam ci tiene assolutamente a muovere contro di noi ha rimescolato le carte: l’arte e il cinema stanno provvedendo a offrirci nuovi modelli di kamikaze secolarizzati, uomini e donne per cui, più che la vita, contino gloria e onore.
1 Ad esempio in S. Zizek & G. Daly, Conversations with Žižek, Polity, Cambridge 2004, pp. 104-6.
2 Secondo l’interpretazione che A. Kojève ha dato del tema hegeliano della “lotta a morte di puro prestigio” e alla dialettica del padrone e del servo nella Fenomenologia dello Spirito.
3 Furbastro titolo italiota – da “Ultimo Uomo” – dato a Brodre, “Fratelli”.
4 Ad esempio, questo “biocentrismo” descrive solo in parte la posizione cattolica ufficiale, che oggi è contraria alla pena di morte e alla guerra anche giusta. Importanti settori protestanti oggi sono ben più biocentrici dei cattolici.