Nietzsche e la decostruzione del cristianesimo
Il nucleo essenziale delle considerazioni svolte da Jean-Luc Nancy nella sua conversazione con Sergio Benvenuto, “Se Dio si nasconde: la decostruzione del cristianesimo” (in Lettera Internazionale n. 71) merita attenzione e rispetto perché costituisce una riproposizione di quello che è stato uno dei capisaldi fondamentali della riforma protestante e del giansenismo: l’idea della differenza di Dio rispetto al mondo e della irriducibilità di Dio a una mera presenza.
Questa idea ha avuto nel Novecento un grande successo filosofico che si è manifestato prima nella cosiddetta teologia dialettica degli anni Venti e nell’esistenzialismo, poi nelle varie articolazioni del cosiddetto pensiero della differenza degli anni Sessanta di ispirazione heideggeriana. Della vastissima letteratura che ha prodotto citerò soltanto gli studi di Luigi Pareyson su Pascal e l’opera monumentale di Lucien Goldmann Il dio nascosto.1 Le argomentazioni di Nancy intorno all’assenza di Dio, al suo nascondersi, alla inadeguatezza della metafisica (che è appunto un pensiero dell’identità) a cogliere ciò che più importa, appartengono al bagaglio culturale di ogni persona colta e costituiscono il punto di partenza di ogni riflessione filosofico-religiosa che consideri la frattura compiuta nella cristianità dai Riformatori come un evento epocale di immensa rilevanza per la storia dell’Occidente. Sono d’accordo con Nancy sul fatto che non bisogna stancarsi di difendere la causa della differenza, specie quando, come oggi, le questioni religiose vengono trattate con ingenuità, rozzezza, semplicioneria ideologica, generando ancora una volta superstizione, credulità e fanatismo.
Ciò premesso, che cosa c’entra l’assenza e il nascondimento di Dio con la decostruzione del cristianesimo? La decostruzione implica la messa in evidenza di qualcosa di non pensato e di non detto nel fenomeno che si prende in considerazione. Ma l’assenza di Dio, la sua differenza rispetto al mondo è stata, a partire dai Riformatori (ma anche prima), pensata e ripensata, detta e arcidetta da tanti pensatori, per esempio, in modo difficilmente superabile, da Karl Barth nel suo commento all’Epistola ai Romani (1919-22). Quanto all’amore, il teologo luterano svedese Anders Nygren nella sua opera monumentale Eros e agape (1930-37) ha mostrato l’originalità e la paradossalità dell’amore cristiano rispetto al giudaismo e all’ellenismo. Non mi pare che la sua possa essere chiamata una “decostruzione”!
Molto retrivo mi sembra poi considerare il monoteismo come unico depositario della differenza teologica. Già Erwin Rodhe nella sua opera Psiche (1890-4) ha mostrato che la metafisica dell’identità nasce e si sviluppa nell’ellenismo sulla base dell’oblio della differenza tra l’umano e il divino che caratterizza il pensiero greco arcaico. Più recentemente l’antropologo Marc Augé nella sua opera Genio del paganesimo (1982),2 evidenzia l’esprit de finesse del paganesimo dei popoli extraeuropei, il cui immaginario è caratterizzato da processi di inversione, di mimetismo e di cancellamento quanto mai sottili e raffinati. Ancor più retrivo è supporre che il pensiero della differenza appartenga solo al protestantesimo. Nel mio libro Del sentire cattolico. La forma culturale di una religione universale3 ho sostenuto che anche nel cattolicesimo l’esperienza della differenza gioca un ruolo essenziale, e non solo nel giansenismo, ma anche in Guicciardini e in Ignazio di Loyola, che furono contemporanei di Lutero.
La decostruzione della morale
Passando sul terreno più strettamente filosofico su cui si pone Nancy, mi sembra importante seguire il suo consiglio circa la necessità di un approfondimento delle idee di Nietzsche sulla morale, sul cristianesimo e su Gesù. Infatti è proprio sul piano della morale che il protestantesimo corre il rischio di finire in una situazione aporetica, specie quando si decostruisce effettivamente, come mostra Denis Müller nel suo ampio studio L’éthique protestante dans la crise de la modernité4: infatti, a suo avviso, il vero decostruttore del protestantesimo è John Caputo, autore dell’opera Against Ethics.5
Come è noto, il punto di partenza della critica alla morale di Nietzsche riguarda lo stesso concetto di valore e di ideale. Nietzsche prende in esame il rapporto tra realtà e idealità e scopre che esso non è affatto un rapporto di opposizione radicale: “esse non sono opposte, tranne che nella consueta esagerazione della concezione popolare o metafisica e […] alla base di tale contrapposizione sta un errore di ragionamento: […] non esiste, a rigor di termini, né un agire altruistico, né un contemplare pienamente disinteressato, entrambe le cose sono soltanto sublimazioni, in cui l’elemento base appare volatilizzato e solo alla più sottile osservazione si rivela ancora esistente” (Umano, troppo umano, § 222). La scoperta e la denuncia di tale pseudo-opposizione è opera dello spirito libero (Freigeist) che succede al genio nell’impersonare la forza storica della vera opposizione.
Questo fenomeno di sublimazione per il quale l’idea nasce dal suo opposto, cioè la giustizia dalla violenza, la bontà dall’interesse, il bene dal male e così via, costituisce l’oggetto privilegiato della critica nietzscheana: con ciò Nietzsche non intende affatto procedere a una spiegazione riduttiva e omogeneizzante degli aspetti “superiori” dell’esperienza, come quella tentata dal materialismo positivistico, e nemmeno pretende di risolvere tutti i valori in mere imposture. La sua posizione è molto più sottile e si differenzia anche dalla critica marxista all’ideologia. Dietro alla sublimazione non c’è un interesse, ma un errore: i giudizi morali – dice Nietzsche – costituiscono “realmente i motivi dell’agire, ma […] sono degli errori, messi a fondamento di ogni giudizio etico, a costituire negli uomini l’impulso verso le loro azioni morali” (Aurora, §103).
In che cosa consiste questo errore fondamentale da cui prende origine la morale, nonché la metafisica, la religione, l’arte, il diritto… insomma tutta il pensiero normativo? Non si tratta innnazitutto di un errore di valutazione, giacché anche l’immoralismo (l’irrazionalismo, il satanismo…) sono per Nietzsche ingannevoli quanto la morale (la ragione, la religione…): “fra buone e cattive azioni non esiste una differenza di genere, ma tutt’al più di grado. Buone azioni sono cattive azioni sublimate; cattive azioni sono buone azioni imbruttite e abbruttite” (Umano, troppo umano, § 107). L’origine dell’errore fondamentale deve essere piuttosto cercata nella struttura stessa della valutazione, nel modo in cui essa articola e pensa l’opposizione. Essa pensa l’opposto in funzione dell’identico, quindi non pensa davvero l’opposto, ma soltanto un altro identico da (op)-porre al primo: la metafisica, fondata sull’esperienza dell’essere, dell’unità, del tutto rifugge da ogni conoscenza dell’opposto. Finché è possibile, prescinde completamente da esso; quando la pressione di questo diventa troppo forte, essa lo pensa nel modo più innocuo possibile, come un alter-ego di segno contrario. La sua concezione dell’opposto non nasce mai da un’esperienza originale di questo, ma solo da una reazione, da un recupero, dal tentativo di ricondurre il suo nemico radicale in un ambito analogo, affine, omogeneo.
La singolarità del fenomeno valutativo consiste proprio nel fatto che esso stabilisce sempre opposizioni false, non perché sbagli nell’individuare il punto discriminante tra gli opposti, ma perché è costretto a fare e a mantenere una distinzione, là dove non ne vorrebbe alcuna. La morale è quindi una vera e propria “autoscissione” dell’uomo: in essa “l’uomo tratta se stesso non come individuum, ma come dividuum” (ivi, § 57). Tale divisione però è falsa, perché le due parti in cui l’uomo morale risulta diviso (l’impulso “egoistico” e quello “altruistico”) sono aspetti diversi di una stessa realtà, che non è propriamente parlando né l’una né l’altra, ma che può essere descritta ugualmente bene tanto come “egoistica”, quanto come “altruistica”. Infatti, secondo Nietzsche, hanno contemporaneamente ragione tanto coloro che considerano i sentimenti morali come fondati su intenzioni immorali, quanto Socrate e Platone, secondo cui l’uomo vuole sempre il bene (ivi, § 102). Tra i termini di un’opposizione morale esiste un continuo scambio che ne compromette la differenza e ne sottolinea la sostanziale identità: come tutti i “valori” nascono dal loro opposto, così tutti i “disvalori” si mantengono solo a patto di diventare a loro volta valori. Per esempio, la parvenza si trasforma in essere: “Se uno vuole per molto tempo e ostinatamente sembrare qualcosa, alla fine gli diventa difficile essere qualcos’altro” (ivi, § 51); l’inganno si cambia in onestà “In tutti i grandi ingannatori […] sopravviene la fede in se stessi” (ivi, § 52).
La coincidenza degli opposti
Questo fenomeno di coincidenza degli opposti di una valutazione si presenta nelle più varie circostanze. I libri scrtitti da Nieztsche tra la rottura con Wagner (1876) e lo Zarathustra (1883) ne offrono un’ampia casistica. La caratterizzazione morale dell’identico e dell’opposto avviene sulla base di uno stesso meccanismo di determinazione: da un lato ciò che è opposto all’identico è per definizione “cattivo”, dall’altro l’identico è “buono” perché opposto al “cattivo” (Aurora, § 110). Il punto di riferimento fondamentale della determinazione del bene e del male è intercambiabile proprio perché in fondo entrambi sono uguali. Il polo opposto costituisce perciò per il sostenitore di un ideale morale un oggetto non solo di repulsione, ma anche di attrazione: “È il sogno dello scalatore che ha in realtà la sua meta in alto, ma strada facendo […] sogna la beatitudine dell’opposto, appunto il rotolare a valle senza la minima fatica” (ivi, § 271). Il fanatico di un ideale “conosce ciò che nega così bene come se stesso, per il semplicissimo motivo che è di là la sua provenienza, laggiù lui è di casa e teme in segreto di dovervi ritornare” (ivi, § 298). Bene e male cioè sono troppo simili per non attrarsi reciprocamente: la tentazione segreta di entrambi è del resto l’abolizione del loro contrasto, l’annientamento di se stessi, la restaurazione di un’identità immobile ed eterna. Poco importa che questa ricostituzione mistica del tutto sia di segno positivo o negativo, sia razionale o irrazionale: l’essenziale – come mostra la filosofia di Schopenhauer – è il trionfo del quietismo, il ristabilimento della pace, la fine dell’opposizione.
Gianni Vattimo nel suo volume Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione (Bompiani, 1974) ha scritto pagine esemplari e oserei dire definitive su questo argomento: fintanto che noi abbiamo un atteggiamento reattivo nei confronti dell’opposto, non riusciremo mai a liberarci dalla cosiddetta “malattia delle catene”, che riduce l’uomo nella situazione di un cane ringhioso, impedendogli di diventare uno spirito libero. Di tale malattia sono massimamente affetti, secondo Nietzsche, il cristianesimo, il socialismo, il femminismo, che sono tutti manifestazioni della metafisica e del pensiero dell’identità.
Dalla fede alla “gaia scienza”
La scoperta delle pseudo-opposizioni metafisiche non ha mai in Nietzsche un esito scettico o nichilistico: da essa non deriva affatto l’intercambiabilità e l’equivalenza di tutte le posizioni, ma l’esigenza e la ricerca di una differenza, di un’opposizione maggiore. Il carattere essenziale di questa differenza è l’attività, l’originarietà, l’affermazione: essa cioè è irriducibile a una critica puramente negativa e quindi dipendente dall’oggetto a cui si contrappone. L’opposizione eccessiva è innovatrice per definizione; essa è il motore del processo storico, non un epifenomeno o espressione di questo: “voglio – scrive Nietzsche – soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice di sì” (La gaia scienza, § 276).
L’opposizione eccessiva è perciò differente dalle pseudo-opposizioni metafisiche, perché non si rovescia, come quest’ultima nel suo opposto: essa ha conseguito “la buona coscienza” “nell’ostilità contro il consueto, il tramandato, il consacrato” (ivi, §297) ed eccede perciò le determinazioni intercambiabili di positivo e di negativo.
La conseguenza più importante è il rifiuto dell’attendismo: non si tratta più di aspettare qualcosa dall’esterno, di rimanere in una condizione spettatrice, contemplativa, anche se critica, ma di sentirsi parte integrante e creativa del divenire. Mentre la fede è connessa con la debolezza, con l’assenza di energia creativa, col bisogno di trovare un sostegno nella realtà che supplisca alla mancanza di volontà, alla base della gaia scienza sta “un piacere e un’energia dell’autodeterminazione”, una libertà del volere, in cui essa “prende congedo da ogni fede, da ogni desiderio di certezza” (ivi, §347).
Non si tratta perciò soltanto di decostruire la morale, ma si può andare oltre alla denuncia delle pseudo-opposizioni valutative. Irrompe una nuova entità che Nietzsche chiama vita o volontà di potenza, e che si caratterizza per il fatto che essa è ormai emancipata dalla “malattia delle catene”: allo spirito libero succede l’oltre-uomo. Inizia così il terzo periodo della vicenda umana e intellettuale di Nietzsche che occupa gli anni che vanno dal 1883 al 1889.
Il cristianesimo? Una gigantesca mistificazione
Il discorso di Nietzsche sul cristianesimo si innesta su queste premesse. Alla base di questo sta un risentimento nei confronti della realtà e della vita che si manifesta appunto nella superfetazione morale che lo contraddistingue. Esso è connesso con la debolezza, la malattia, la decadenza, il declino e l’esaurimento delle esperienze. Infatti, fintanto che le esperienze sono attuali, esse non hanno affatto bisogno di quel sovrappiù che è fornito dall’esortazione parenetica e dall’ingiunzione morale. Quando vien meno il naturale piacere che è la loro ragion d’essere, è tempo di abbandonarle e passare oltre. La morale cristiana è stata invece il tentativo di conservarle trasformandole in verità e dovere.
Per Nietzsche, il cristianesimo è stato una gigantesca mistificazione per la quale i più nichilisti, i più impotenti, i meno capaci di creare, sono diventati i padroni del mondo in nome di entità metafisiche che essi stessi gestiscono e amministrano. Questo progetto, concepito da Paolo di Tarso, ha potuto essere realizzato mediante un’enorme impostura, la quale ha falsificato e capovolto ogni aspetto della realtà e lo stesso concetto di realtà. Poiché sul piano della realtà – che per Nietzsche è differenza – i cristiani avrebbero avuto senz’altro la peggio, essi ne hanno fatto a meno; animati da un rancore, da un risentimento, da un odio profondo e radicale nei confronti di essa, hanno fondato il loro potere su astrazioni metafisiche, su deliri e su fantasie che richiedono uno sforzo continuo, un impegno costante per potere essere mantenute.
La figura di Gesù è tuttavia estranea a questa impostura. Come il quietismo pessimistico dei buddisti, Gesù è espressione della decadenza; egli non ama la realtà, che provoca uno stato di profonda sofferenza, ma almeno non reagisce a essa, non crea il mondo fittizio e morboso della metafisica teologica e della morale; Gesù e Buddha si sottraggono alla realtà con l’accettazione di tutto, con l’eliminazione di ogni lotta. La “buona novella” insegna appunto la fine di ogni opposizione, di ogni dialettica. Gesù non nega mai, non contraddice mai, non giudica mai; perciò i suoi seguaci, a cominciare dagli Evangelisti e da Paolo, hanno tradito il significato della sua vita.
Non diversamente, il buddismo si difende dal dolore mediante un edonismo quietistico che elude ogni contrasto, ogni dovere, ogni costrizione. Nietzsche considera questa mancanza di opposizione assai più sana della falsa opposizione reattiva della morale e del cristianesimo; per quanto essa nasca da una debolezza radicale, almeno non si spaccia per altro da quello che è, e con questa modestia ritrova un rapporto naturale con la realtà da cui la morale è per definizione esclusa. La beatitudine non viene promessa, non viene vincolata a condizioni; “è l’unica realtà”, è qualcosa di dato, che non rimanda che a se stesso, non una dottrina.
Ciò che Nancy sembra dimenticare è che sotto la sferza di Nietzsche non cade solo la metafisica, ma anche il Dio nascosto del protestantesimo. L’elaborazione di un’idea più pura di Dio fa ancora parte del mondo del risentimento che è consustanziale al cristianesimo. Il movimento che da Lutero e dalla Riforma protestante porta a Leibniz, e a Kant, acquista agli occhi di Nietzsche un significato restaurativo e regressivo: la rivolta del mondo tedesco contro Roma è la rivincita antistorica della teologia e della morale nei confronti dell’attitudine veramente progressiva ed essenzialmente creativa del Rinascimento italiano (Machiavelli). La grande tradizione della filosofia tedesca a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento non è altro che la secolarizzazione della teologia protestante: essa è tanto più ipocrita quanto meglio nasconde il tarlo segreto da cui nasce. Perciò Nietzsche sostiene che bisogna essere più duri contro i protestanti che contro i cattolici e definisce il filosofo “il criminale dei criminali”.
L’importanza dell’Italia e della sua cultura nella storia universale moderna consiste nel fatto che qui Dio è morto prima e in modo più definitivo che in altri luoghi: paragonando in un frammento postumo del 1887 i caratteri nazional-popolari degli stati europei, Nietzsche definisce il genio nazionale italiano come “il più fine”, “il più libero”, “il più ricco”. La libertà consiste appunto nella mancanza di condizionamenti metafisici, ovvero nell’aperto riconoscimento che la differenza non appartiene a Dio, ma solo alla sua volontà, cioè al mondo. È questo appunto il senso delle mie letture di Guicciardini e di Loyola, che costituiscono la seconda parte del volume Del sentire cattolico.
Cattolicesimo e protestantesimo
Il mio intento non è certo quello di riesumare il conflitto tra cattolicesimo e protestantesimo! Si tratta di due diverse sensibilità religiose che sono pienamente comprensibili soltanto se si prende in considerazione le culture in cui si radicano. L’essenziale è però intanto sottrarsi all’essenzialismo idealistico che non si interroga sui caratteri specifici che i singoli fenomeni religiosi hanno storicamente e socialmente assunto, ma va alla ricerca di un’essenza della religione o addirittura della spiritualità. A mio avviso, occorre invece partire da una premessa metodologica opposta: la religione, come l’arte, non è una categoria dello spirito, ma un modo particolare e specifico del processo storico. È questo appunto la premessa metodologica del volume collettivo curato da Susan L. Mizruchi, Religion and Cultural Studies.6
Susan Mizruchi afferma che la religione, per lungo tempo trascurata dalla tradizione dei Cultural Studies, è diventata un campo di ricerca cutting edge: alcune delle più interessanti indagini nel campo della critica letteraria e della storia riguardano oggi la religione. Come l’estetica, anche gli studi religiosi, visti da un punto di vista culturale, costituiscono un luogo di vivace azione e interazione culturale. La religione deve essere considerata come “non universale” tanto in pratica quanto in teoria; essa è un particolare fenomeno appreso attraverso il linguaggio, il quale è esso stesso storicamente particolare.
Viene così implicitamente accettata la metodologia proposta da uno dei più importanti teologi protestanti della fine del Novecento, George A. Lindbeck che ha conferito la più grande importanza nello studio della religione all’aspetto culturale e linguistico. Nel volume The Nature of Doctrine: Religion and Theology in a Postliberal Age7, Lindbeck rifiuta due altre concezioni della religione molto diffuse. La prima è la cognitiva-proposizionalista, che conferisce un’importanza determinante alle dottrine, intese come affermazioni sulla realtà: essa pretende di enunciare proposizioni intorno alla verità. La seconda teoria rifiutata da Lindbeck è quella esperienziale-espressivista, che focalizza la propria attenzione sui sentimenti interiori e sulle esperienze esistenziali intese come qualcosa di prelinguistico e di immediato. Secondo quest’idea della religione, i simboli, i miti e specialmente i rituali sono espressioni secondarie, se non fuorvianti, di un sentire intimo che costituisce l’essenziale.
A queste due teorie della religione Lindbeck oppone un nuovo tipo di approccio che considera la religione come un tipo di telaio (framework) culturale e/o linguistico, un medium che forma le soggettività individuali piuttosto che la manifestazione immediata di queste. Il punto fondamentale di questa teoria è il concetto di consistenza intrasistemica: ogni singola cultura religiosa è formata da un vocabolario di elementi discorsivi e non discorsivi, nonché da una speciale logica o grammatica sulla base della quale essi si articolano e si sviluppano.
In altre parole, negli studi religiosi è avvenuta, nell’ambito dell’ebraismo come in quello del protestantesimo, una svolta che non considera più i fenomeni religiosi da un punto di vista conoscitivo (come se si trattasse di affermare la verità di alcunché), né da un punto di vista morale (nel senso di propugnare una certa idea di bene e di male). È arrivata finalmente l’ora di considerare anche il cattolicesimo, che alcuni ritengono la meno studiata delle grandi religioni, da un punto di vista culturale. Certo è che il cattolicesimo è la meno filosoficamente pensata delle grandi religioni, proprio a causa del dogmatismo e del moralismo che l’ha caratterizzato soprattutto negli ultimi due secoli.
L’idea centrale intorno a cui ruota la mia ricerca è che esiste un cattolicesimo culturale differente e autonomo rispetto all’apparato dogmatico e morale della Chiesa. Esso sarebbe caratterizzato da una sensibilità assai diversa dal protestantesimo, la quale si è espressa molto di più nella vita quotidiana, nella letteratura e nelle arti che nella teologia e nel ministero ecclesiastico. In altre parole, da un lato non si può ridurre il cattolicesimo a ciò che la Chiesa dice di se stessa, dall’altro non si può annullare l’eredità storica cattolica propugnando quel ritorno alle origini evangeliche che caratterizza il protestantesimo. Il cattolicesimo cuilturale diffida di un soggettivismo individualistico che pretende di ridurre la religione a un sentimento privato senza radici storiche e sociali. Esso rifiuta tuttavia anche l’intimazione ideologica a credere o a fare alcunché e attribuisce una importanza decisiva a un “sentire rituale” che è stato compreso e vissuto nell’Ottocento e nel Novecento più dagli scrittori e dagli artisti che dal clero.