Mediterraneo: un mare in vendita, di Jurica Pavičić

In una delle scene più famose del romanzo Camera con vista di Edward Forster, la protagonista del libro – la giovane inglese Lucy Honeychurch – viaggia per la Toscana a bordo di una carrozza guidata da un giovane italiano. A un certo punto, il cocchiere, un ragazzo bruno di bell’aspetto, fa salire sulla carrozza una ragazza che presenta come sua sorella. Poco dopo, i presunti fratello e sorella si scambiano un bacio appassionato che spaventa la pudica ragazza edoardiana, dominata da un rigido codice morale, ma nello stesso tempo turbata dal risveglio dei sensi.

mediterraneo

Questa scena del romanzo, ben rappresentato sul grande schermo da James Ivory e Ismail Merchant, illustra in modo abbastanza preciso come negli ultimi centocinquanta anni l’Europa settentrionale immagina il Mediterraneo. Per gli europei del Nord, il Mediterraneo è un luogo disinibito, sensuale e passionale. Allo stesso tempo, il Mediterraneo è anche il luogo in cui l’europeo del Nord cerca la felicità. La cerca in quella metafora che Forster usa come titolo: Camera con vista.

Il Sud come un luogo mitico

Questa camera con vista ha almeno due significati. In una struttura ricettiva, hotel o appartamento, essa è letteralmente una camera con vista. È quella camera per la quale pagate un 7% in più sul prezzo del soggiorno di una settimana, per quella camera dalla quale vi aspettate di vedere le bellezze locali: il mare incoronato dalle isole, i tetti del centro storico o di una piccola cittadina o, come nel caso di Forster, la cupola della cattedrale di Bernini.

Ma il significato della camera con vista non è solo letterale, è anche metaforico. Il Mediterraneo immaginato dal Nord è il luogo da cui vi aspettate la liberazione edonistica, erotica e, in casi estremi, alcolica. Per alcune generazioni di europei, il Mediterraneo è stato il luogo dove la gente girava nuda, dove per essere felici bastava avere il calore del sole e una manciata di fichi secchi, il luogo dove la libertà del corpo si fondeva con la filosofia, la secolare saggezza e gentilezza. Questo è il Mediterraneo dell’omonimo film di Salvatores, un’isola greca del piacere immune perfino alla guerra intorno. È il Mediterraneo del romanzo Osmi povjerenik (L’ottavo commissario) di Renato Baretić, un’isola distante dalla terraferma nella quale si parla un dialetto strano, dove gli abitanti locali ignorano il governo esterno e su cui il protagonista trova il proprio rifugio dalla ripugnante realtà della Croazia corrotta, brusca e cinica. Questo è il Mediterraneo che i protagonisti della grande letteratura e del cinema europeo cercano e sfortunatamente non trovano. Lo cercano invano anche le protagoniste del film Ilsilenzio di Bergman, due sorelle che trascorrono le vacanze estive chiuse in una camera calda e non climatizzata di un albergo fatiscente, con fin troppo alcol sul comodino, in un paese che sembra essere governato da una dittatura. Perfino Mr. Bean, il personaggio della comicità slapstick britannica, interpretato da Rowan Atkinson, è alla ricerca di questo Mediterraneo, quando nel film Mr Bean’s Holiday  si reca in Provenza alla scoperta di paesaggi bucolici.

Quando si tratta del Mediterraneo, Mr. Bean è un tipico europeo, perché centinaia di milioni di europei immaginano il Sud come un luogo mitico. Sulle ali di questa fantasia, prenotano i pacchetti di una settimana di Neckermann o Thomas Cook per andare in Sicilia, Dalmazia, Cipro, Andalusia e Anatolia. Per una camera con vista sopportano i camerieri maleducati, gli indigeni poco gentili, il traffico, le valigie disperse, le guide ignoranti e le truffe sui conti. Per una camera con vista, le teenager cadono ubriache sul lungomare a Mykonos o a Zrče sull’isola di Pago. Per quell’allettante sogno europeo migliaia di britannici e di tedeschi comprano villette a Maiorca e in Algarve. Tutti sognano una settimana sotto un pergolato di viti dalle quali cola succo d’uva e, invece di dedicarsi alla chiusura del bilancio annuale, immaginano di condurre una barca nel canale di Curzola, desiderano bere aperol, ouzo o pastis in qualche bar locale dove i saggi meridionali giocano a carte e discutono di politica globale. Sognano di partire alla volta del Sud per raggiungere il luogo in cui – come ci hanno insegnato i libri e il cinema – vivono solo capitani tipo Corelli, che suonano il mandolino e che non sono capaci di fare del male. Laggiù, ogni vecchietto è Zorba il Greco, il filosofo barbuto che senza il minimo pudore si lancia nel ballo del sirtaki. Laggiù non c’è smog, rigore aziendale e routine quotidiana come a Krefeld, Essen, Newcastle o Sheffield. Laggiù, anche un pescatore è filosofo, la donna della porta accanto una Chef diplomata, là ognuno sa usare l’olio di oliva e il timo, ogni Marlboro Man cita Béla Hamvas mentre con l’amo pesca i dentici. Laggiù la gente è gentile, aperta e calorosa, non perché ama i nostri soldi, ma perché questo è il suo modo di essere. Una volta scaduti i quindici giorni di affitto, quando l’abitante del Nord torna a Dortmund o a Göteborg, questa gente resta lì, fuori dalla camera con vista di Forster. Continua a vivere nel paradiso, perfino quando termina l’estate e quando a settembre si accorciano le giornate. Questa gente giù al Sud, penserete voi, continua a vivere la stessa vita anche quando noi ce ne andiamo: uomini abbronzati e brizzolati meditano all’ombra della veranda, verso sera vanno a pesca e iniziano la giornata con un bicchiere di vino. Il loro mondo non conosce le nostre paure, non teme il bilancio trimestrale, l’ondata di licenziamenti e la compilazione dei moduli per il pagamento dell’IVA.

Esiste ancora il Mediterraneo?

Ma è davvero così? Chi sono queste persone che si vedono dalla camera con vista, piccole come formiche ai piedi delle loro cattedrali gigantesche? Esistono anche quando il primo di settembre il dio del turismo spegne i lampioni del porto? Vivono anche fuori dal turismo, oppure sono solo sembianze fluttuanti, comparse di una grande produzione teatrale che si chiama destinazione turistica? Noi Mediterranei viviamo nei nostri paesi o nelle destinazioni turistiche? Abbiamo anche noi le nostre vite, oppure tutto ciò è un grande spettacolo la cui scenografia viene smontata in autunno insieme alle chiesette, ai balconcini e ai caffè? Che cosa succede in questo Mediterraneo quando in autunno rimane solo con se stesso, quando l’orizzonte diventa scuro per lo scirocco, il grecale, il maestrale e la bora, quando in dicembre si accorciano le giornate e il vento, attraverso le persiane, penetra nella camera gelida e spiffera come un organo? Anche allora esiste questo luogo che si chiama Mediterraneo? È visibile dalla camera di Lucy?     

Il Mediterraneo certamente non è uno solo. Ci sono due Mediterranei, e mentre scrivo, non penso all’esasperata divisione tra quello europeo, in gran parte cattolico, e quello afroasiatico, prevalentemente musulmano. Penso piuttosto a quella differenza molto più importante e profonda che con poche sfumature accomuna l’Italia e la Grecia al Libano e al Marocco. Il primo di questi due Mediterranei è quello sognato dall’élite edoardiana all’epoca del Grand Tour, così come oggi si sognano il Club Med di Sant’Ambroggio o di Biograd. È il Mediterraneo dei templi antichi a picco sul mare, dei pittori rinascimentali, dei polittici delle chiesette isolane, delle fontane nel patio. È il Mediterraneo dei profumi di anice, rosmarino e salvia, del prosecco, della salsa di pomodoro che le donne, a fine estate, conservano nei vicoli di Bari vecchia o di Cattaro.

Ma oltre a questo c’è un altro Mediterraneo che penetra come uno spiacevole mormorio attraverso le notizie televisive e le rivelazioni giornalistiche. Il Mediterraneo non è solo il Chianti, ma anche la Camorra. Il Mediterraneo non è solo il formaggio greco, ma anche il debito greco. Il Mediterraneo non sono solo i paradisi turistici come la Provenza, la Toscana e l’Istria, ma anche Beirut occidentale, la striscia di Gaza, Mostar, Homs e Napoli. Il Mediterraneo sono anche gli abitanti di Castel Volturno che protestano a sostegno dei camorristi, il Mediterraneo sono gli abitanti di Spalato che gettano vasi e uova contro il Gay Pride. Il Mediterraneo sono anche Napoli e Macarsca con le loro discariche, così come Budva e Herceg Novi che d’estate rimangono senz’acqua. Il Mediterraneo è il 30% di disoccupati dell’Estremadura e di Murcia, come il 30% di donne disoccupate in Dalmazia. Il Mediterraneo sono le duemila costruzioni abusive all’anno in Sicilia. Il Mediterraneo sono anche Taranto, dove l’acciaieria ILVA avvelena la popolazione con la diossina, esattamente come la fabbrica di eternit di Salona vicino a Spalato ha ucciso migliaia di abitanti. Il Mediterraneo sono i morti, i colossi industriali arrugginiti e ricoperti di cespugli come Porto Marghera e Kaštela vicino a Spalato. Il Mediterraneo sono milioni di greci, siciliani, libanesi e dalmati che si sono sparsi in giro per il mondo fuggendo la fame, la “clausola vinicola”,[1]111111 la filossera, i gendarmi, le coscrizioni militari e le dittature. Il Mediterraneo sono anche Franco, Mussolini e Berlusconi, le Camice Nere, gli Ustascia e Primo de Rivera. Il Mediterraneo sono anche antiche lingue letterarie destinate a scomparire, l’occitano, il sardo, il ciacavo, il veneziano. Il Mediterraneo sono i paesi PIGS con il loro bilancio in deficit. Tutto questo è il Mediterraneo, anzi: molto spesso questo è proprio il Mediterraneo europeo, quello che dovrebbe essere più felice, che riceve gli immigrati, la gente che sbarca a Lampedusa e scavalca il filo di ferro di Melilla. Oggi, perfino quel felice Mediterraneo settentrionale è in gran parte sconfitto, un luogo da cui bisogna andarsene perché il suo futuro è fragile. Questo Mediterraneo è segnato da un aumento del debito, dalla violenza, dalla mancanza di tolleranza, dall’illegalità, dall’inquinamento e dalla corruzione. È il Mediterraneo che uno straordinario regista palestinese, Elia Suleiman, definisce come terra di progetti e case non finiti. I lavori non finiti nel Mediterraneo sono ovunque: i resti di vigneti terrazzati annientati dalla filossera, i residui di zone industriali distrutte dalla transizione, cave di pietra abbandonate, villaggi spopolati, villages perchés senza abitanti, casette senza pastori, con i tetti sfondati, megalopoli turistiche che non interessano più a nessuno. E cosa dire delle case non finite? Tutte uguali, sono a Ramallah, a Beirut, a Palermo o nei quartieri periferici di Spalato: costruite da gente povera con materiale povero, sono cubi di cemento con tetti piatti dai cui angoli spuntano armature di metallo. Queste armature protese verso il cielo sono la metafora reale del Mediterraneo: sono la rappresentazione visuale dei progetti falliti, delle aspirazioni future che non si realizzeranno mai esattamente come il piano della casa che non verrà mai aggiunto.

Un mare in vendita

Questo è il Mediterraneo, un luogo senza presente, stretto tra il futuro e il passato. Il futuro che si rimanda da sempre come una promessa di progresso mai mantenuta. Il passato che ogni comunità del Mediterraneo ossequia, annota e celebra perché insoddisfatta del proprio presente. Questo passato è spesso oggetto di un culto insano in parte perché rappresenta il surrogato di un presente insignificante e senza successo, in parte perché è l’oggetto di uno scambio commerciale. Il Mediterraneo di oggi vive del proprio passato e lo commercializza. Vive del proprio passato innanzitutto perché non ha un presente. È senza un presente anche perché dipende soprattutto dal proprio passato.

E questo patrimonio che oggi il Mediterraneo vende risale ai tempi in cui il Mediterraneo era ciò che non è oggi: l’avanguardia economica, tecnologica e innovativa. In diverse epoche del passato, i popoli mediterranei pagani, cristiani e musulmani hanno inventato l’alfabeto, i numeri, la vela latina, l’arco architettonico, il diritto romano, l’ontologia, la geometria, la cupola, il paracadute e l’interesse bancario. Se Steve Jobs fosse esistito nel Rinascimento sarebbe vissuto a Firenze, se fosse esistito nel Medioevo sarebbe vissuto nella Córdoba dei Mori, se fosse esistito nell’età antica sarebbe stato originario di Atene, di Efeso o Siracusa. Le città della costa mediterranea – Atene, Alessandria, Córdoba, Venezia e Genova – erano i centri urbani più grandi e più sviluppati dal punto di vista commerciale, tecnologico e intellettuale della propria epoca. Primeggiavano nel commercio, nei mestieri, nella tecnologia, nell’arte applicata, avevano marinai e ingegneri, architetti, banchieri e filosofi. Avevano il ruolo che oggi hanno Hong Kong, New York, Shanghai e Toronto. Attualmente nel Mediterraneo solo Barcellona si avvicina a queste città. Il resto del Mediterraneo ricorda un passeggero che viaggia su un treno con le spalle rivolte alla destinazione. Il futuro a cui va incontro gli viene da dietro, egli non partecipa veramente a questa realtà, è come se non avesse alcuna influenza su di essa. Oggi il Mediterraneo è destinatario di tecnologia e di stili, consuma rassegnato il futuro. I salti tecnologici, i mutamenti dei modelli economici, ideologici e stilistici accadono altrove ormai da trecento anni.

Di pari passo con questo atteggiamento passivo di sudditanza sul piano dell’innovazione, va anche la soggezione politica. Ora che il Mediterraneo musulmano del Sud ha avuto, salvo qualche eccezione, il suo 1848 (come il Nord lo descrive in maniera eurocentrica), con un po’ di ironia potremmo dire che ciò è un bene perché finalmente una parte del Mediterraneo sarà in grado di governare se stessa. Ma nella parte nord del Mediterraneo le cose non vanno proprio così. Tranne qualche eccezione, il Mediterraneo europeo contemporaneo è una colonia interna, uno spazio in cui si governa dal Nord, da Bruxelles, Parigi, Milano, Madrid e Zagabria, dai Parlamenti, dalle torri d’affari, dai Ministeri e dalle Borse che si trovano da qualche parte lontano dalla nostra baia nella quale a settembre si spengono i lampioni e si chiudono gli scuri. E la cosa più grave è che spesso questo mondo esterno e distante guarda alle nostre località con distacco, trattandole come una fonte di reddito, un asset capitalistico, la materia prima dello sviluppo da barattare con la terra di qualcuno.

In questa nuova suddivisione degli affari europei, il posto del Mediterraneo è chiaro. Il Mediterraneo non deve essere luogo dell’innovazione, ma destinazione. Per adempiere a tale funzione, deve soddisfare una condizione preliminare: rimanere vecchio. Questo è il punto in cui il Mediterraneo antico erode il Mediterraneo presente come luogo di vita moderna.     

Il rapporto tra turismo e identità

A questo punto bisogna tornare di nuovo a Rowan Atkinson e a Mr. Bean perché a volte i prodotti culturali più sciocchi diventano rappresentativi di una cultura. Mentre viaggia verso la Provenza, Mr. Bean è sempre insoddisfatto. Viaggia continuamente attraverso lo stesso mondo globalizzato e anonimo di stazioni ferroviarie, binari, ristoranti e alberghi non trovando da nessuna parte quell’incantesimo meridionale che un turista si aspetta. Poi, d’un tratto, Bean càpita in un piccolo villaggio della Provenza il cui aspetto sembra appagare o addirittura superare le sue aspettative: trova un carro carico di fieno, i contadini che sorseggiano il vino, una taverna e una piazzetta carina con i gelsi. Ma l’entusiasmo di Bean è momentaneo perché subito dopo scopre di essere dentro il set di una pubblicità per un cognac.

Questa scena illustra perfettamente il modo in cui la dinamica economica del turismo perverte l’identità. Per essere una destinazione di successo, qualsiasi comunità mediterranea deve costruire un’identità artificiale, un brand. Si tratta di una dinamica che non è per niente semplice e banale. La società mediterranea non deve mutare troppo rapidamente e in maniera radicale perché potrebbe essere percepita come poco autentica. Allo stesso tempo, non deve fossilizzarsi perché la destinazione che rimane spopolata si paralizza e cessa di essere autentica. In questo senso, il rapporto tra turismo e identità è un po’ simile alla storia di Re Mida che tutto ciò che tocca trasforma in oro non commestibile. Il turismo agisce come il bacio della morte. In un determinato momento, in un punto dello spazio e del tempo, l’élite nomade scopre qualcosa di autentico e intatto: La Provenza di fin de siècle, la Sardegna degli anni Ottanta, l’Istria degli anni Novanta. Ma non appena arriva a questa scoperta, è molto probabile che con il passaparola provochi una reazione a catena. In un breve lasso di tempo, tutto ciò che è autentico comincia visibilmente a mutare, si adegua alla domanda, diventa un parco a tema. Il turismo è come se fosse una conferma del principio di indeterminazione di Heisenberg: il solo fatto di guardare un oggetto significa mutarlo.

Gli effetti di questo sguardo dipendono dal luogo e dall’epoca. Nei tempi e nei luoghi del turismo di massa, questo sguardo ha prodotto la vendita spudorata della propria identità, un insieme di artifici per turisti, le notti di flamenco per i gruppi turistici, il fado nel ristorante affittato da un’agenzia, le danze dei Dervisci nelle stazioni ferroviarie, le notti di Diocleziano a Spalato con la messa in scena di battaglie tra Pirati e Romani, le serate con pescatori in maglietta da marinaio che dalle barche di legno scaricano sgombri congelati. Nelle versioni più raffinate, nelle enclaves emancipate del turismo postmoderno, questa ricerca dell’esotico assume un’altra forma e diventa la creazione del marchio attraverso l’identità: le strade dell’olio d’oliva, i tartufi istriani, i cooking and walking tours in Italia, gli agriturismi sloveni … una raffinata divisione tra la vita reale e lo spettacolo che diventa irriconoscibile anche agli autoctoni: come oggetto dello sguardo, siete costretti a mimetizzarvi e tanto più questo trompe-l’oeil è convincente, tanto più ci si dimentica della sua esistenza, della sua cornice voyeuristica.

Queste sono le conseguenze culturali dell’essere il Mediterraneo una colonia. Ma la cosa ancora peggiore, grave e pericolosa sono le conseguenze per lo spazio. Ovvero, il Mediterraneo, che oggi è governato dal Nord per il quale rappresenta fonte di profitto, ha sviluppato una delle economie meno sostenibili nell’ampio ventaglio delle economie del XXI secolo. Ha sviluppato un’economia che non si basa sulla vendita della conoscenza (come quella anglosassone) né sulla vendita della manodopera (tipo quella asiatica), né sulla vendita delle materie prime, come quella mediorientale o russa. Ha sviluppato un’economia che si basa sulla vendita della cosa più preziosa nel Mediterraneo, della camera con vista, vale a dire lo spazio. All’inizio del XXI secolo lo spazio per il Mediterraneo è l’equivalente del petrolio per gli Emirati Arabi.     

Il consumo dello spazio

Negli anni Cinquanta e Sessanta, nella prima fase del turismo di massa, lo spazio si vendeva senza scrupoli e all’ingrosso.Questa è l’epoca di Benidorm: migliaia e migliaia di ettari di terra lungo la costa spagnola e turca si trasformano in città artificiali con palazzoni turistici, mentre la popolazione dell’entroterra, che per secoli aveva vissuto di pecore, carrube e fichi, si sposta verso le spiagge di Murcia, Almería, Anatolia e Macarsca per far funzionare il sistema.   

Questo consumo elementare dello spazio ha la sua industria, ma anche la sua manifattura: negli anni Sessanta, nell’Adriatico orientale, a Mimice, Brela o a Podgora, la gente che per secoli aveva vissuto sulle pendici delle colline (per costante timore dei pirati) si rende conto di avere terra lungo le intatte spiagge di ghiaia. L’ironia della sorte è che, nelle società patriarcali, questi appezzamenti di terra, ritenuti di poco valore, appartenevano spesso alle figlie minori e nubili. Negli anni Sessanta, i metri quadrati di terra vicino al mare ricoperti di fichi, di carrube o di ulivi, diventano d’un tratto preziosi come l’anello di Tolkien. Improvvisamente le famiglie della costa scoprono l’elisir che trasformerà la povertà cronica in sicurezza materiale. Migliaia di croati, montenegrini, greci costruiscono sulla terra dei propri padri grandiose case a tre piani. Lo spazio viene divorato in maniera longitudinale, l’edificazione serpeggia a più livelli lungo la costa e le strade e, diversamente dalla Spagna, il turismo qui è diffuso e dilettantesco, con investitori locali e il profitto che rimane nel territorio. Questa è la Dalmazia in cui sono cresciuto: terra in cui ognuno ha la propria villetta e i letti vengono dati in affitto da medici, ingegneri, giudici. Una generazione costruisce case e accumula profitto, quella successiva impara le lingue e fa studiare i figli nelle grandi città.

Il risultato di tre decenni di consumo nel Mediterraneo europeo è visibile ovunque, da Antibes al Montenegro, dall’Andalusia a Rimini. È quel fenomeno che in croato viene gergalmente definito cementificazione. Le sue due facce col tempo si sono rivelate mostruose: le megalopoli turistiche piene di palazzoni sono diventate insopportabili per il ceto medio-alto e le nuove Lucy Honeychurch non sognano più una stanza all’ottavo piano di un resort turistico. Allo stesso tempo, la vita economica del piccolo affittuario adriatico è sempre più difficile: sempre più spazio viene divorato per troppo pochi posti letto, troppo poco consumo, poche aragoste per cena, pochi cocktail al bar della spiaggia e pochi ingressi per party spumeggianti.

All’inizio del XXI secolo, la cementificazione è quasi una parolaccia, le politiche ambientali hanno già imparato che non devono ripetere l’errore spagnolo. Contemporaneamente, i voli a basso costo formano una nuova classe media che viaggia in maniera più frivola e frequente. L’economia postmoderna sta creando una nuova classe di persone il cui lavoro con il laptop può essere fatto da qualsiasi luogo, da Londra, Lisbona o al bordo di una nave. La popolazione residente lungo il litorale mediterraneo è in aumento e le infrastrutture – le strade, l’energia, l’acqua – fanno spesso fatica a seguire questa crescita. Allo stesso tempo, le società mediterranee intelligenti cercano di limitare l’espansione edilizia. Ciò significa che il mercato sta puntando su spazi esistenti già edificati, pompando soldi in comunità piccole e limitate come in una pentola a pressione.  

Questo processo, iniziato nel 2000, ha raggiunto il suo apice con il collasso del mercato immobiliare nel 2007. Sono stato testimone diretto degli effetti di questo processo: la famiglia di mio padre era originaria dell’isola di Hvar, non però della zona dei comuni rinascimentali, sviluppata, turistica e urbanizzata, ma di quella rurale nel centro dell’isola dove per secoli i contadini avevano vissuto coltivando vigneti, finché, nel 1890, l’epidemia di filossera non li costrinse a spargersi per il mondo. Oggi la famiglia di mio padre è dispersa tra Perth e Los Angeles e nel villaggio sull’isola è rimasta solo una vecchia zia a cui, a metà degli anni Cinquanta, i membri della famiglia regalarono una vecchia casa di pietra. Perché non avrebbero dovuto farlo? All’epoca i villaggi nel centro dell’isola sembravano luoghi senza futuro. Eppure nel 2008 su un giornale locale ho letto che uno dei prìncipi della famiglia reale britannica è entrato in barca nel villaggio di mio nonno per trascorrervi l’estate. Quell’estate, nello stesso villaggio hanno soggiornato il cofondatore di Microsoft e un principe saudita. L’autunno successivo i miei cugini isolani hanno invitato tutta la famiglia a formalizzare la donazione che negli anni Cinquanta era stata battuta a macchina su un semplice foglio di carta. Ormai, un metro quadrato di casa abitabile sull’Adriatico costava 2.500 euro, sulle isole 3.000 e a Dubrovnik 5.000: un rudere che fino al giorno prima era stato dimenticato da tutti improvvisamente acquistava un grande valore.

La stessa estate, i giornali croati pubblicarono un’inchiesta su un investitore straniero che aveva speso milioni di euro per corrompere alcuni politici locali con l’intenzione di far modificare il piano regolatore del villaggio di Bogomolje, sull’isola di Hvar, per trasformare una superficie verde della baia in terreno edificabile. Bogomolje è un paesino di 350 abitanti. Provate a immaginare un villaggio di 350 abitanti, un paesino in cui d’inverno non c’è nemmeno un bar aperto, e i primi giornali arrivano al negozietto alle undici del mattino, immaginate cosa deve essere quando, nelle notti invernali, cominciano a spargersi per le calli deserte voci e accuse su tutti quei milioni. Questo è il vero notturno mediterraneo, il noir del piccolo paese che ricorda Il corvo di Henri-Georges Clouzot.

Qui la gente potrebbe vivere

Questo è il grazioso Mediterraneo settentrionale all’inizio del XXI secolo, all’alba della nuova epoca. È il Mediterraneo dei piccoli paesi in cui arrivano grandi soldi per farli esplodere come bombole di gas sotto pressione, il Mediterraneo in cui qualcuno compra la casa di un altro, la proprietà e l’intero paese semplicemente perché se lo può permettere e perché gli piace. Questo è il Mediterraneo nel quale, rispetto al 1960, il numero degli abitanti della vecchia Venezia lagunare è sceso da settanta a quarantamila, il Mediterraneo in cui, nel 2011, i giornali montenegrini hanno reso noto che il 60% della costa del Montenegro è proprietà di cittadini russi. In cui in una settimana un solo studio legale con sede nell’isola caraibica di Saint Kitts e Nevis ha comprato cinque appartamenti nel Palazzo di Diocleziano, nel centro storico di Spalato, la cui superficie è grande quanto due campi da calcio messi insieme. In dieci anni, lo stesso Palazzo di Diocleziano ha perso il 40 % degli abitanti e, secondo il censimento del 2011, ne sono rimasti appena 719! In quel periodo, ero a Lisbona e ad Alfama, il suo quartiere più antico e bello, mi è capitato di vedere la stessa scena che vedo nell’Adriatico orientale. Gli abitanti amareggiati e decimati per le vendite avevano appeso sui muri delle case un manifesto con la scritta Não a extinção (“In estinzione”), e avevano disegnato graffiti che dicevano Estas ruas pertenecema nós, (“Queste strade appartengono a noi”), mentre gli attivisti di sinistra avevano scritto sugli ex negozi e sugli immobili abbandonati Aqui podia viver gente (“Qui la gente potrebbe vivere”). Era toccante vedere un’immagine così familiare lì, nel lontano Occidente, in quel quartiere scosceso e labirintico di calli e scalini che mi faceva venire in mente espressioni simili usate in Dalmazia e nell’Istria interna. Ne prodaji djedovinu, ne prodaji svoje (“Non vendere la terra dei tuoi padri, non vendere ciò che è tuo”) sono le scritte che troverete in giro per i porti turistici della Croazia oppure sui muri lungo le strade di campagna nell’Istria settentrionale. In questa battaglia donchisciottesca, è difficile dire dove cessa il gretto nazionalismo e inizia la coscienza di classe.

Tuttavia, nel mondo dopo la crisi e il crollo del 2007-2008, al Mediterraneo può essere poco d’aiuto la testardaggine orgogliosa di qualche abitante di Hvar, di Perasto o di Alfama. Indebitati e privi degli strumenti monetari che permetterebbero loro di diventare concorrenziali e di difendere le loro economie con dazi doganali, alla fine del primo decennio del nuovo secolo i paesi mediterranei si sono trovati in un tunnel senza uscita. L’Asia ha strappato loro l’industria, il Nord la tecnologia e l’innovazione, la loro bilancia dei pagamenti soffoca nei debiti e la crescita economica è congelata. In questo stato di cose, le politiche mediterranee sono pronte più che mai a fare ciò che fanno di solito, ovvero pagare lo sviluppo con la vendita dello spazio che sfortunatamente è sempre terra di qualcuno. Nei momenti in cui la crescita è congelata, gli investitori diventano vacche sacre da mungere e gli investimenti nel Mediterraneo assumono la forma di simulazioni in 3D e di modellini di resort turistici, di appartamenti in multiproprietà, di bungalow destinati alla vendita in qualche baia di ghiaia ricoperta di verde selvatico e di abeti. La popolazione locale che da decenni vive del turismo al dettaglio, delle proprie camere che pubblicizza su pezzi di cartone lungo la strada, improvvisamente si trova vicino a un grande Moloc turistico che non potrà battere e che non gli lascerà nemmeno una briciola. Il loro paese, il loro spazio saranno sfruttati e usati contro di loro.

Questa è la battaglia che attualmente si conduce per il Mediterraneo settentrionale europeo, l’ultima feroce e vana battaglia per l’unico bene rimasto, lo spazio. Si combatte in ogni condominio e in ogni strada, dal veneziano Cannaregio, attraverso i centri di Dubrovnik/Ragusa e Cattaro fino ai quartieri di Lisbona e di São Cristobal. Si combatte in ogni baia isolana in cui alcuni piccoli operatori turistici aspettano di essere eliminati da qualche grande azienda – esattamente come la Coca Cola ha eliminato i locali imbottigliatori di soda. Si combatte per la concessione di spiagge, per il diritto di recinzione, per il pagamento del parcheggio, per l’accesso al mare e per l’attracco delle barche. I pontili turistici lottano contro i porti pescherecci e i bacini portuali, i grandi pescatori si scontrano con i piccoli, gli abitanti estivi della Toscana, delle Baleari e di Hvar sgomitano con gli indigeni, in un nuovo mondo capovolto e bizzarro dove un postino locale può benissimo abitare in un immobile che altrove vale quanto un’intera via ed essere allo stesso tempo povero. Ogni volta che una comunità locale impone il pagamento e la recinzione della spiaggia, ogni volta che elimina i pescherecci locali per far posto agli yacht, ogni volta che il prezzo del caffè raggiunge quello di Londra e di Vienna, il Mediterraneo perde un’altra piccola battaglia. A ogni sconfitta, il Mediterraneo diventa un po’ meno autentico, e un po’ più un’illusione, un set cinematografico, una scatola di cartone.

Questo è il dramma che si accende ogni volta che una nuova Lucy Honeychurch apre la finestra della propria camera con vista a sud per la quale ha pagato quel 7% in più. Quello sguardo dalla camera, come nella meccanica quantistica di Heisenberg, muta il suo oggetto. Per gli abitanti mediterranei, il Mediterraneo è, col passare del tempo, sempre meno un prestigioso spazio di viali pubblici, spiagge e piazze, e sempre più uno spazio di camere di servizio, cucine, magazzini di deposito e di quartieri cementificati. Per gli abitanti mediterranei, il Mediterraneo diventa sempre più una camera senza vista sulla cosa più importante, il proprio futuro.

Traduzione di Estera Miočić

 Jurica Pavičić, nato a Spalato, è giornalista, saggista, romanziere, critico cinematografico, ed è una delle voci più impegnate e note della Croazia post-comunista. Osservatore critico e sensibile dei profondi mutamenti scaturiti dalla guerra e dal passaggio dal socialismo jugoslavo a una forma di selvaggio capitalismo post-industriale è autore di cinque romanzi. In Italia è noto dal 2009 per la pubblicazione di saggi e racconti su diverse riviste e in  volumi collettanei. Nel 2011, Besa ha pubblicato la traduzione del suo ultimo libro di racconti sulla realtà post-comunista croata, Il collezionista di serpenti.