Attualità di Ernesto Nathan
“Attualità” di Ernesto Nathan, cent’anni dopo. E perché? Ernesto Nathan è stato indubbiamente, come sindaco di Roma, un’eccezione e un pioniere, una sorta di “eroe”. L’obsolescenza degli eroi sarebbe desiderabile, quando però la loro opera o il loro intento profondo risultassero compiuti. Così non sembra per Nathan. Era nato a Londra.
Parlava un italiano stentato e a tratti improbabile, ma i suoi discorsi sono esemplari per concisione e praticità. Non era mai stato un capo-partito o anche solo un deputato al parlamento. Eppure, cent’anni dopo, dopo una lunga eclissi, è ancora davanti a noi.
È ancora “attuale”. Perché? Storici, economisti, urbanisti, studiosi di varia estrazione e provenienza – da Mario Sanfilippo ad Alberto Caracciolo, Italo Insolera, Anna Maria Isastia, Giuseppe Barbalace, Vezio De Lucia e molti altri – hanno meritoriamente esplorato da ultimo il suo caso. Per quanto riguarda i sociologi, la sua attualità ha anche un risvolto metodologico. È noto infatti e comunemente accettato che la ricerca sociale empirica ha da essere orientata da un apparato teorico-concettuale, pena la frammentazione e l’insignificanza. Ma l’impianto teorico della ricerca non piove dalle nuvole né può dirsi nato bell’e fatto ex capite Jovis. La stessa formazione dei concetti sociologici, da non confondersi con quelli filosofici quidditativi, o essenzialistici, ha bisogno della ricerca empirica, anche nelle sue forme più slabbrate e apparentemente gratuite, per rinnovare e riorientare la teoria.
Come fu travolta la Roma di Nathan
L’incontro con Ernesto Nathan fu, in questo senso, reso necessario quando, negli anni ’60, studiavo le borgate romane con i miei primi assistenti, Corrado Antiochia, Martino Ancona, Armando Catemario; più tardi, con Simonetta Piccone Stella e Gianni Statera, e più tardi ancora con Marcello Santoloni, Marcello Lelli, Maria Michetti e Maria Macioti, autrice, quest’ultima, dell’ottimo studio monografico, Ernesto Nathan, un sindaco che non ha fatto scuola. Di fronte a una delle più dolenti frange periferiche del mondo, che non aveva nulla da invidiare alle favelas brasiliane, alle villamiserias argentine, alle poblaciones del Cile o alle barriadas del Perù, l’interrogativo che si poneva ai ricercatori era semplice e disarmante: come mai? Perché la città si è sviluppata a macchia d’olio? Come mai è mancata un’idea di città? In altre parole, almeno per cominciare, un piano regolatore?
Ernesto Nathan, il sindaco di Roma che per primo aveva posto mano a un piano regolatore generale in senso proprio e che per questo era stato combattuto e sconfitto dal blocco edilizio guidato soprattutto dall’aristocrazia papalina, detta anche nera, si imponeva alla nostra attenzione. Non per caso, pubblicato dopo lunghe discussioni con Vito Laterza il libro Roma da capitale a periferia, si riparlava anche del pioniere Ernesto Nathan, in uno spirito multidisciplinare, insieme con Ludovico Quaroni, Roberto Villetti, Marco Pannella e altri.
Dobbiamo agli storici pregevoli studi, meticolosi e illuminanti, intorno al contesto dell’opera di Ernesto Nathan e delle sue iniziative razionalizzanti, in aperto contrasto con la prospettiva essenzialmente paternalistica e caritativa, in realtà discrezionale, delle forze sociali, economiche e politiche dominanti dell’epoca.
Correvano i tempi dell’Italietta giolittiana, i primi tre lustri del nuovo secolo, il secolo XX, la guerra libica, la vigilia della Prima guerra mondiale, quando la “belle époque” doveva bruscamente e tragicamente interrompersi per restare come il vago ricordo di una non raggiunta saturnia aetas nell’immaginario collettivo europeo. Con la fine dell’amministrazione Nathan, travolta dalle divisioni interne ma soprattutto dalla velenosa polemica della Civiltà Cattolica e dalla violenta opposizione dei potentati economici parassitari, legati alla rendita e al Vaticano, Roma doveva conoscere un’esplosione di sviluppo edilizio selvaggio, che ne avrebbe alterato per sempre lo stile di vita di tranquilla città storica, sede del governo italiano, ma prima ancora sede di una delle più organizzate fra le tre religioni monoteistiche universali. Una doppia capitale, dunque, ma una doppia capitale che, nelle mani degli speculatori, si avviava a essere un’insignificante, caotica periferia
La speculazione edilizia all’insegna del Vaticano
Dopo aver contribuito in maniera decisiva a farlo cadere, il dopo-Nathan segna una fase in cui gli interessi direttamente o indirettamente legati al Vaticano si scatenano sulla scia dell’epoca umbertina e delle frenetiche iniziative edilizie di Mons. De Merode. I sindaci che si segnalano, alla fine della Seconda guerra mondiale, sono Salvatore Rebecchini e Amerigo Petrucci. Gli strumenti tecnico-operativi e finanziari sono nelle mani della Società Generale Immobiliare, gestita da uomini di fiducia del Vaticano. La speculazione edilizia celebra i suoi trionfi passando attraverso un triplice anello costituito da borgate, borghetti e baracche.
Non solo non rispetta il verde pubblico. Nella Via Tuscolana, per esempio, “mangia” anche i marciapiedi. Sembra quasi naturale, comprensibile se non legittimo, che i piani regolatori vengano opportunamente alterati in base alle esigenze degli interessi dominanti. Più che la “capitale del capitale”, come è stato detto, Roma resta la capitale della rendita – una rendita statica, fondamentalmente parassitaria. Non fa meraviglia che qui si sia formato e funzioni un blocco politico edilizio in difesa della rendita. È lo stesso blocco contro cui si batteva Ernesto Nathan. I modi per la mutazione e lo svuotamento dei piani regolatori sono tre: a) la variante; b) la deroga; c) l’abusivismo, a volte, anche a sinistra, paradossalmente celebrato come l’espressione genuina dell’immaginazione e della creatività popolare. Viene alla mente, per atroce ironia, il saggio di Georg Simmel sull’Estetica inintenzionale dei tetti di Roma (v. La Critica sociologica). Le amministrazioni comunali sono di un’arrendevolezza commovente. Rare le eccezioni: il breve mandato (due anni) del moroteo Glauco Della Porta; forse il centro-sinistra prematuro e inefficiente del fanfaniano Clelio Darida. L’attualità di Nathan è sottolineata ancora oggi dalle insufficienze, se non dal relativo fallimento, delle giunte di sinistra: dalla soluzione dell’esclusione sociale e dell’emarginazione delle borgate mediante una nuova segnaletica – quella che chiamerei volentieri la soluzione “semiologica” – voluta dal mio indimenticabile amico Luigi Petroselli, e la soluzione “estetica” come anestesia di massa, in tutto degna degli zampilli a geometria variabile di Villa d’Este a Tivoli e delle faraoniche, cardinalizie feste con fuochi di artificio della Roma barocca, che però, per quanto godibili, non possono far dimenticare le questioni sociali aperte. Questioni non di oggi soltanto. Questioni che vengono da lontano.
Come in altra sede più volte mi è accaduto, torna insistente la domanda: ma dove sono gli urbanisti, gli architetti, i sociologi urbani, gli specialisti e i tecnici che studiano, analizzano, progettano e ipotizzano il futuro del fenomeno urbano?
Questa domanda mi è tornata più volte alla mente durante le nostre ricerche su Roma. L’ho posta spesso, a volte con il candore dell’ignoranza a volte con l’impazienza dell’indignazione provocatoria, ai miei collaboratori e anche ai sociologi urbani ortodossi. Sono convinto che vi sia nelle tecniche degli specialisti qualche cosa che va ben al di là del momento tecnico. Lungi dall’essere un semplice specialista neutrale, il pianificatore urbanista svolge, lo voglia o meno, un preciso ruolo politico. È probabile che una crescente consapevolezza di questo ruolo, sia pure implicito, potrebbe avere effetti positivi anche sul lavoro tecnico. Esiste, in altre parole, un ineliminabile elemento politico nei processi di pianificazione urbana. Non dispongo per ora di pezze d’appoggio empiriche per verificare con rigore questo assunto essenzialmente ipotetico. Qui di seguito mi limito a pochi, scarni cenni.1
Per un’analisi dei piani regolatori
Cercherò di descrivere, in maniera forzatamente sommaria, i primi lineamenti di una ricerca cui da tempo vengo pensando e che riguarda sostanzialmente l’elemento politico nei processi – che si presentano e si vogliono neutralmente scientifici – di pianificazione urbana, con particolare riferimento ai Piani regolatori generali (PRG) della città di Roma. Attraverso un riesame critico, che non si limiti né alla pura forma giuridica né a quella tecnico-urbanistica, non dovrebbe riuscire impossibile ricavare dalle linee fondamentali e dallo stesso faticoso iter di questi PRG la funzione e il ruolo del pianificatore dell’area urbana, inteso come agente sociale importante.
Già nella seconda Prefazione al mio volume Roma da capitale a periferia2 notavo come, per renderci conto di alcuni fondamentali problemi di Roma, sarebbe stato sufficiente ripercorrere l’iter dei Piani regolatori della città, dal primo, approvato dal Consiglio comunale nel 1873, a quello odierno. Sono piani per lo più a rimorchio della spinta speculativa, incapaci di regolare l’ampliamento razionale della città, definendone in anticipo le zone di diffusione e portandovi i servizi essenziali (rete viaria e fognature), e pronti invece ad accodarsi, con deroghe e sanatorie più o meno sommarie, alla iniziativa privata valorizzando con i servizi pubblici quei terreni in cui erano sorte le costruzioni, nella convinzione che sarebbe stato poi il Comune a renderle abitabili.
Questo tema di ricerca offre, per una trattazione approfondita, due possibilità: in primo luogo, dedurre le linee fondamentali rintracciabili nei PRG, succedutisi lungo l’arco di un intero secolo, in base a un esame di prima mano dei documenti relativi a essi, allo scopo di pervenire a un’interpretazione di natura critica con riguardo alle versioni più accreditate: in questo caso, l’analisi giunge a una lettura dei PRG di Roma come pattuizioni contrattuali tra le forze dominanti (secondo un’impostazione che ricorda la Group Theory della politologia americana), versione, questa, della quale Insolera3 ha fatto la sua ipotesi di lavoro, muovendo dall’ottica tipica di un “intellettuale urbanista”, in sé legittima, ma riduttiva dal punto di vista sociologico, poiché di fatto analizza – parzialmente – la contraddizione fra intellettuali (certi intellettuali) e potere dominante; in secondo luogo, assumere come punto di partenza la conduzione sociale e le espressioni politiche di quanti sono stati, e sono tuttora, considerati dalle forze dominanti come soggetti alle loro scelte, allo scopo di individuare se, come, quando e quanto sia emersa una presenza democratica dal basso tale da inserirsi tra le forze in campo con una sua autonoma capacità di progettazione, scelta e decisione; ciò comporterebbe necessariamente l’analisi della struttura del potere e dei rapporti di potere a Roma, da verificare puntualmente lungo il percorso (dietro e al di sotto degli atti ufficiali) del PRG: analisi e verifica, come è evidente, di grande complessità.
Qui mi limito a offrire qualche elemento che possa eventualmente servire alla formulazione di ipotesi di lavoro specifiche, idonee a gettar luce sui meccanismi della pianificazione territoriale e su quegli elementi di natura politica che spesso si nascondono dietro le formulazioni scientifiche del linguaggio specialistico.4
Il blocco edilizio per una capitale anomala
A Roma, probabilmente con maggiore chiarezza che in altre realtà, il ruolo del pianificatore urbanista si confronta direttamente con il “blocco edilizio”, vale a dire con quella formazione politica e sociale (potere economico, nelle due componenti della proprietà dei suoli edificabili e dei capitali necessari all’edificazione, da una parte, e potere decisionale, amministrativo-statuale, dall’altra) che, proprio a Roma, ha determinato in modo esclusivo le modalità e i tempi di espansione dell’organismo cittadino.
È un fatto che a Roma non si sono prodotte contraddizioni all’interno delle forze economiche e finanziarie tra spinte tendenti all’investimento nella produzione di case e spinte verso attività industriali che, per la solidità del programma produttivo ancor più che per l’ampiezza delle dimensioni, avrebbero potuto conferire alla città le caratteristiche proprie delle metropoli degli Stati moderni, basati o meno su rapporti capitalistici di produzione. Il potere politico, d’altro canto, sia come espressione delle forze dominanti nella città, sia riferito all’intera area nazionale, ha avuto come suo unico obiettivo quello di concorrere a confermare le anomalie strutturali di Roma capitale.
Non è nostro compito introdurci nella discussione se sia stata prioritaria la scelta politica di tener lontano dalla città capitale il proletariato industriale (la Comune di Parigi è pur sempre contemporanea alla breccia di Porta Pia) o se sia stata la grande massa di profitti raccolta rapidamente e senza rischio attraverso le attività edificatorie, esplose in una città che ormai da decenni rispecchiava nella sua immobilità il rigor mortis dello Stato pontificio, a scoraggiare decisamente il capitale a imboccare altre vie di accumulazione meno lucrose e più esposte all’incertezza degli esiti. Sta di fatto che il territorio del Comune di Roma è da oltre un secolo area privilegiata di un’alleanza tra patrimonio fondiario e capitale finanziario; e che tale alleanza si rinnova quotidianamente ancora oggi, quando non operano più gli stati di necessità dovuti al dilatarsi della popolazione, sia per il flusso immigratorio che per l’accrescimento naturale. Oggi, infatti, la funzione che era propria delle spinte demografiche è assolta dal dilatarsi dei processi di terziarizzazione della città.
Il fatto che Roma sia divenuta un’improbabile e anomala “capitale del capitale”, ossia una delle sedi dove assai rapido è il movimento di denaro a livello mondiale, non contrasta, ma concorda, con le caratteristiche della città e, anzi, le esalta. Le attività industriali di una qualche consistenza continuano a essere quasi totalmente assenti entro i confini del Comune di Roma, che con i suoi 150 mila ettari ha il territorio più vasto di ogni altra città italiana. Esse hanno trovato una loro collocazione, sollecitata e favorita dal potere centrale, lungo la direttrice Pomezia-Latina e costituiscono nel loro insieme un’importante realtà sociale e non solo un fatto economico di rilievo. La separatezza di questa consistente area industriale dalla città crea problemi anche al pianificatore urbanista, ma quei problemi presentano sempre una costante: entro i confini del Comune è il blocco edilizio che conserva vigorosamente il suo dominio.
La scelta della vicenda dei piani regolatori di Roma per definire una possibile tipologia del pianificatore urbanista non è arbitraria e tanto meno di comodo. Essa offre l’occasione di osservare come tale figura giochi uno specifico ruolo di mediazione intellettuale in una situazione assai semplificata di confronto-scontro tra interessi privati e interesse collettivo.
La letteratura urbanistica più avveduta è ben consapevole del fatto che a Roma si misura quello che abbiamo chiamato il confronto diretto fra pianificatore e “blocco edilizio”. Essa è venuta rappresentando questa situazione con l’immagine delle “due città”, “Roma e l’altra Roma”, giustamente evitando rigide ed esclusive collocazioni di classe e prestando attenzione ai fattori ideologici, ai processi storici, al complesso delle tensioni sociali. Essa, però, ci è apparsa e ci pare a disagio nell’acquisire coscienza di quello che le ricerche sociologiche su Roma hanno individuato e definito come “interfunzionalità economica e ideologica tra le due città.
L’urbanistica retorica del fascismo
Il fascismo ebbe chiaro il fatto che a Roma esisteva un’“altra Roma” da coprire, da temere, da esorcizzare. Per essa coniò il termine “borgata”, quando costruì la prima, con l’impegno diretto della mano pubblica, fin dal 1924, ad Acilia a 15 chilometri dal centro cittadino. Allora Roma aveva 700 mila abitanti; qualche anno dopo, quando si pubblicherà il PRG del 1931, la retorica del tempo festeggerà il raggiungimento del primo milione.
Per certi aspetti drammatico si presenta il ruolo di almeno alcuni degli intellettuali impegnati nelle commissioni che, attraverso un lavoro di dieci anni, si troveranno coinvolti nella redazione del piano. Ci riferiamo soprattutto a coloro che erano partiti dal proposito di “non haussmanizzare” (cioè, di non distruggere) il centro storico rinascimentale, ma di rivalutarlo, alleggerendolo delle superfetazioni che nei secoli successivi avevano soffocato singoli edifici e interi quartieri. Molti di quegli intellettuali e tecnici furono costretti a eseguire o ad assistere in silenzio alla distruzione di grandi parti della città, agli “sventramenti” e alla costruzione, fuori della città, di una cintura di borgate e di baraccamenti. Gli archeologi spesso apparvero sostenitori di quei progetti mentre gli architetti tentarono di avanzare un dissenso: in realtà ambedue si presentano come strumenti passivi della falsa retorica fascista, che fece da copertura mistificatoria agli interessi dei grandi proprietari terrieri urbani e degli imprenditori che lucravano sia dagli sventramenti, che isolavano i monumenti e valorizzavano oltre il prevedibile tutto ciò che restava di costruito nel centro storico, sia dall’edificazione degli insediamenti periferici, che accrescevano il valore non solo dei terreni su cui si costruiva, ma anche di tutta la corona di terre che si distendeva tra le borgate e la città.
Diversa si era presentata la situazione nei decenni immediatamente successivi alla proclamazione di Roma capitale e al trasferimento in essa della Corte, del Parlamento e del Governo. Scarsa era allora la consistenza di quella che abbiamo chiamato “l’altra Roma”. Non come dato quantitativo, poiché numeroso era il popolo minuto e forti i flussi immigratori di plebi provenienti dalle campagne; difficile, però, riuscì per essi imboccare le vie dell’organizzazione, della lotta, della presenza politica. Manovali, carrettieri, operai, artigiani, che pure vennero coinvolti dal vortice euforico delle “febbri edilizie” e dalle susseguenti e sconvolgenti crisi, poco efficacemente potevano opporsi a chi manovrava le une e le altre.
In primo piano erano le forze legate strutturalmente alla Santa Sede, insieme con il denaro fresco, italiano e straniero, che era affluito a Roma. Al di là delle irriducibili incompatibilità politiche e ideologiche, dietro i portoni dei palazzi nobiliari romani chiusi “per lutto”, dietro le iniziative contro i nuovi barbari che si erano impadroniti della città, dietro le ingiurie anticlericali, fortissima si strinse l’alleanza tra tutti coloro che miravano ad avvantaggiarsi del prodigioso svilupparsi ed estendersi delle strade e delle case, delle condotte per l’acqua e per le fogne, delle reti ferroviarie e dei trasporti cittadini.
In quel momento non c’è in Italia una vera cultura urbanistica, né un vero ruolo per la pianificazione urbana. È un campo in cui si presenta un ritardo cospicuo rispetto ad altre parti d’Europa. Ci sono ingegneri, architetti, amministratori che intervengono a livelli professionali e di sintesi assai inferiori rispetto a quelli praticati altrove, di fronte a problemi analoghi a quelli che Roma presentava.
Lo strumento della convenzione edilizia
In questa situazione lo strumento fondamentale per l’edificazione della città, preparato dai tecnici e sancito nei PRG, è quello della “convenzione”, intesa come esplicita pattuizione in base alla quale al Comune spettava la costruzione dei servizi indispensabili, come strade e fogne, e ai privati costruire le case da mettere a frutto. Pressoché nullo fu il frutto del tentativo perseguito nel 1873 e poi nel 1907 di acquisire demani comunali di aree da rivendere a prezzi maggiorati per le spese di urbanizzazione, avendo come obiettivo quello di porre un freno al mercato speculativo delle aree e quello di dare una casa anche ai ceti popolari. La grande, pionieristica lezione di Nathan è stata, più che disattesa, totalmente dimenticata. L’alleanza dei gruppi e delle famiglie, civili e religiose, risultò molto più forte e aggressiva. In questa situazione i tecnici redassero le convenzioni, volta a volta mediando e componendo gli interessi dei potenti padroni dei suoli e dei capitali.
Quando il proletariato urbano e masse consistenti di popolazione cittadina sono in grado di esprimere lotte collettive di opposizione e di sostituire alla subalternità culturale una nuova visione di sé e un nuovo ruolo per sé, il pianificatore urbanista può proporsi – e di fatto si è venuto proponendo – come agente di mobilitazione sociale: non solo su un piano “politico e propagandistico”, ma sul terreno concreto della produzione culturale che gli è propria. Mi riferisco alla presenza di questi intellettuali nelle lotte per la casa che a Roma sono state particolarmente forti e ampie a metà degli anni Cinquanta e nel periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Nella prima fase essi furono in qualche modo a rimorchio o almeno in ritardo rispetto alle forze politiche di opposizione, che denunciarono per prime e con forza le tendenze prevalenti nell’urbanistica romana e il regime di oligopolio dominante sul mercato delle aree e sui meccanismi finanziari e politici che presiedevano allo sviluppo della città “a macchia d’olio”.
Con un maggior grado di autonomia, alcuni gruppi di pianificatori urbanisti sono intervenuti nel secondo periodo. Il loro campo di azione si è rivolto soprattutto – data anche la situazione legislativa in atto – alle varianti del PRG e ai piani particolareggiati di attuazione. Il riferimento è soprattutto alla molteplice azione svolta per l’aumento degli spazi verdi: numerosi urbanisti hanno studiato piani di recupero e di pubblicizzazione di aree libere o da liberare, collegandosi a movimenti di massa e a organizzazioni ricreative, sportive, culturali, seguendone e sollecitandone l’azione, spesso dando ad esse contenuti nuovi e più incisivi. Penso anche all’azione di mobilitazione svolta in alcuni quartieri. Famoso è stato il caso, ben noto anche fuori Roma, della denuncia e dell’azione intrapresa contro il pool di costruttori che hanno realizzato in pochissimo tempo il quartiere di Magliana Nuova, utilizzando – fino e oltre i limiti del lecito e del legittimo – le possibilità offerte dalle leggi, dai regolamenti, dai silenzi e dagli errori delle disposizioni comunali.
Una sfida storica non raccolta
Oggi, anche Roma si trova, come del resto tutte le capitali del mondo, di fronte a una sfida storica. La vecchia città industriale è finita. Stiamo entrando in un tipo nuovo di società dinamica, orizzontalmente dilagante, policentrica, come altrove ho cercato di dimostrare.5
Questi sviluppi non hanno però nulla di automatico, non corrispondono alla logica di un sovrano ordine inintenzionale. Decisioni politiche, interessi economici, valori morali, simboli storici e tensioni ideologiche si intrecciano e segnano, talvolta tragicamente, il volto della città, ne determinano il destino.
Roma capitale d’Italia non è mai stata amata dagli italiani. È stata più subìta che voluta. Non abbiamo dovuto attendere per questo le tirate maccheroniche o le invettive improvvisate dello sbevazzatore padano e dei suoi seguaci. I piemontesi vi sono scesi da Torino, poi da Firenze, più da invasori che da compatrioti. Theodor Mommsen non aveva tutti i torti nel domandare agli statisti piemontesi divenuti ministri italiani. “Che cosa farete a Roma? Non è possibile starsene a Roma senza qualche grande idea”.
L’idea non c’è stata. Roma si è sviluppata senza un’idea che ne orientasse l’evoluzione. A Roma si è costruito. La speculazione edilizia ha celebrato memorabili trionfi. Timorosi del formarsi di una classe operaia numerosa e forse, col tempo, minacciosa, e spaventati dalle contemporanee esperienze sanguinose della Comune di Parigi, l’indomani della sconfitta di Sédan, Quintino Sella insisteva sull’asse Stazione Termini–Via Nazionale, mentre Giovanni Giolitti si preoccupava dell’eccessiva concentrazione della burocrazia, per questo solo fatto resa più vulnerabile.
Oggi le sedi ministeriali sono all’incirca trecento con oltre 60 mila dipendenti su una superficie di due milioni di metri quadrati. Le grandi idee sono mancate. Forse la definizione attribuita a Francesco Saverio Nitti, che vedeva in Roma la sola città medio-orientale priva di un quartiere europeo, è soltanto una battuta cattiva e ingenerosa. Sta però di fatto che Roma solo recentemente ha avuto il suo auditorium mentre la sua rete metropolitana è ancora ben lontana dall’essere adeguata.
Per avere interventi significativi bisogna attendere occasioni particolari: l’EUR è sorto dove il fascismo contava di organizzare l’esposizione universale nel 1942; nel 1960 vi fu l’occasione delle Olimpiadi; infine, i mondiali di calcio del 1990.
Lo sviluppo di Roma procede a sussulti. Non è – non è mai stato, a ben guardare – uno sviluppo razionale, dotato di un disegno, capace di giustificarsi in senso generale, nel quadro di un interesse pubblico esplicito e come tale percepito dalla popolazione romana nel suo insieme. È un’espressione capricciosa, intermittente, messa in moto dall’erratico accumularsi delle accidentalità di una lunga storia, ma anche da interessi famelici, appunto per questo frettolosi, con scadenze tanto ravvicinate quanto angoscianti e legate a ragioni contingenti. Altrove ho osservato che la struttura di Roma è ormai molto complessa, che non è più riassumibile in una immagine semplice, se non addirittura dicotomica, che parlare di città e anti-città, come era legittimo fare negli anni Sessanta, sfiora lo schematismo.6
Fra i rischi, notevole è quello che induce a considerare la baracca e la baraccopoli come il prodotto di un sottosviluppo ormai superato, cosicché l’impegno di oggi consisterebbe solo nell’esprimere obiettivi di programmazione del territorio, di organizzazione delle strutture cittadine, di garantire l’uso collettivo di spazi e beni precedentemente sottratti, di lavorare, insomma, nella convinzione che sia possibile restituire la città a tutti i cittadini attraverso un mero sforzo di razionalizzazione.
Tutto questo potrà essere necessario, ma non è sufficiente. È un’ipotesi che sottace, se non trascura, la forza e il dominio, tuttora forti, del “blocco edilizio”. La formazione politica e sociale che da cento e più anni domina a Roma, quell’alleanza fra potere economico, nelle sue due componenti (proprietà dei suoli edificabili e capitali per l’edificazione) da una parte e, dall’altra, potere politico decisionale, è ancora viva. Il Campidoglio le è stato talvolta, per un certo numero di anni, sottratto, ma i tavoli su cui ha potuto e può giocare sono numerosi. Oggi non sono più le spinte demografiche a far da volano all’espansione dell’organismo cittadino. Sono i processi di terziarizzazione della città a garantire per altra via l’apertura di nuovi spazi sui quali il “blocco edilizio” può mantenere pretese e far pesare ipoteche.
La triplice lezione di Nathan
Sembra evidente, anche sulla base di queste scarne notazioni, che la lezione di Ernesto Nathan è ancora attuale. L’incontro con la sua figura e la sua opera da parte dei sociologi romani è stato in apparenza casuale, determinato forse dal fatto in sé banale che l’istituto di sociologia mono-cattedra dell’epoca non disponeva di fondi per la ricerca sul campo così che il nostro oggetto di ricerca coincideva necessariamente con il capolinea degli autobus cittadini: Borgata Alessandrina, Acquedotto Felice, Borghetto Latino, Villa Gordiani, e così via. Fu così che incontrammo Nathan. Studiando la frangia estrema della città, ci domandavamo come mai la città si fosse espansa a macchia d’olio, seguendo la capricciosità e le accidentalità dei potenti interessi della rendita fondiaria. Fu dunque un regalo delle circostanze. Ma si sa che il caso, come qualcuno ebbe a dire, è solo il regalo di un dio misericordioso che si vergogna della sua bontà.
Per tempo ci fu concesso di comprendere la triplice lezione di Nathan: 1) il piano regolatore come strumento di lotta contro la speculazione edilizia e la conseguente privatizzazione dei beni pubblici, in primo luogo del territorio; 2) le attività di educazione continuativa fra le popolazioni dell’Agro romano, in una prospettiva non paternalisticamente caritativa, ma come promozione culturale e sociale delle persone, secondo un’ispirazione liberale e mazziniana, ma anche, tenuto conto dei legami di Nathan con l’Inghilterra, non lontana dal riformismo del socialismo fabiano e di una democrazia dal basso, in base al principio che si può controllare solo ciò che si conosce; 3) la resistenza e la reazione polemica contro lo strapotere del Vaticano nei confronti dello Stato laico.
Una lezione, quest’ultima, che merita un’attenzione particolare specialmente oggi, in una situazione politica e morale in cui, forse anche per via della mediocrità della leadership democratica laica, si sta passando dal Papa Re d’un tempo al Papa Protettore di oggi, avallando nei fatti e nei comportamenti la superiorità d’un potere dogmatico ierocratico rispetto alle prerogative dello Stato di diritto. Nessun intento, da parte mia, di resuscitare il vecchio anti-clericalismo de L’Asino o di Podrecca, ma solo la preoccupazione nel vedere troppa gente e troppi rappresentanti del popolo debitamente eletti pronti a inginocchiarsi di fronte a un’istanza religiosa non sempre aliena dal prevaricare e legiferare su temi attinenti alla giurisdizione del governo democratico laico.
La recente visita del Papa al Parlamento italiano, per i modi e i toni usati più che per le parole dette, ha lanciato segnali preoccupanti che sarebbe superficiale o stolto lasciar cadere.7
di Franco Ferrarotti