Il romanziere e lo storico Intervista a Umberto Eco
In diverse occasioni Lei ha avuto modo di sostenere che la differenza tra la saggistica e la narrativa consiste nel fatto che la prima intende dimostrare una “tesi” cercando di risolvere certi problemi, mentre la seconda evidenzia le contraddizioni della vita mantenendo una forte carica di ambiguità. In rapporto alla dimensione dell’interpretazione, che svolge una funzione preponderante sia nei suoi romanzi che nei suoi saggi, come si può conciliare la dimensione della dimostrazione scientifica con quella dell’invenzione letteraria?
In realtà, non si tratta di conciliarle. Di fatto non è un caso che alcuni filosofi facciano oggetto di indagine le opere letterarie. Possono scrivere su Proust e la memoria, ad esempio, perché si trovano semplicemente di fronte a qualcuno – il narratore, oppure il poeta – che può dire qualcosa di interessante anche per loro, secondo le modalità espresse dal testo. Se un filosofo legge Cartesio è per cercare di capire nel modo più chiaro possibile che cosa pensasse sul meccanicismo. Invece quando, per esempio, Enzo Paci leggeva filosoficamente un poeta come Eliot, lo interpretava da filosofo e vi cercava un pensiero che non appariva immediatamente in superficie e più che delle soluzioni o delle teorie vi cercava delle contraddizioni, dei problemi. Potrei dire, in termini autobiografici, che ci sono certe cose che non mi sento di sostenere o di trattare in modo chiaro e definitivo in un saggio, mentre preferisco mettere in scena narrativamente il problema. Per semplificare ancora, se la saggistica lavora verso la risposta, la narrativa lavora in direzione della domanda e dunque si possono rivelare complementari.
In merito ai suoi romanzi Lei si è sempre ispirato a una specifica epoca storica: il Medioevo dei Padri della Chiesa, i percorsi “mistici” dei Templari e dei Rosacroce, il Seicento delle grandi esplorazioni, ancora il Medioevo di Federico II e dei viaggi in Oriente. Centrale è sempre stata la dimensione religiosa (le dispute, le eresie, le reliquie), non meno di quella politica (la bramosia di potere, la conquista di nuovi regni). Non ha mai pensato che si potessero fare alcuni paralleli con la realtà sociale, politica e civile dei nostri giorni?
Innanzi tutto quello che mi affascina nello scrivere un romanzo è passare, come mi è capitato sinora, minimo sei anni e massimo otto a cercare fonti e a scoprire aspetti di un mondo lontano. Se dovessi scrivere una storia d’amore che ha luogo nel presente, non avrei bisogno di fare alcuna ricerca e troverei la cosa estremamente deludente, per cui in sostanza scrivo romanzi storici perché mi diverte di più. A parte il fatto che Il pendolo di Foucault, anche se ha delle ampie panoramiche di carattere storico, si svolge nel presente, dove a mio parere vengono toccati alcuni problemi importanti del mondo politico attuale, come la sindrome del complotto e così via.
Fatta questa precisazione, il primo fine che mi pongo quando scrivo un romanzo storico, come è stato nel caso de Il nome della rosa, de L’isola del giorno prima e di Baudolino, è di ignorare completamente il presente per cercare di capire quel mondo. Tuttavia ogni lettura storica, anche quella fatta dallo storico più rigoroso, è sempre una lettura in prospettiva. Come diceva Croce, la storia, nel senso della storiografia, è sempre contemporanea. Comunque noi che guardiamo a un tempo lontano non possiamo evitare di vederlo con i nostri occhi di contemporanei. Vale a dire che ci sono certe cose che istintivamente mettiamo a fuoco, mentre ne lasciamo cadere delle altre. In questo senso, mettendomi a raccontare di un mondo lontano, magari senza accorgermene, talora invece accorgendomene persino con una certa malizia, posso mettere a fuoco delle cose che parlano direttamente ai contemporanei. Certe volte mi è accaduto di trovare il lettore che vedeva dei riferimenti al presente che io non avevo in mente, ma proprio attraverso una lettura più sensibile si poteva riscontrare un’analogia con i tempi nostri.
Per fare un esempio, scrivevo Il nome della rosa, dove il mio unico interesse era mettere in scena una complessa trama poliziesca all’interno di un’abbazia, che poi ho deciso di situare nel Trecento perché mi erano capitati alcuni documenti estremamente affascinanti sulle lotte pauperistiche dell’epoca. Nel corso della narrazione mi accorsi che emergevano – attraverso questi fenomeni medievali di rivolta non organizzata – aspetti affini a quel terrorismo che stavamo vivendo proprio nel periodo in cui scrivevo, più o meno verso la fine degli anni Settanta. Certamente, anche se non avevo un’intenzione precisa, tutto ciò mi ha portato a sottolineare queste somiglianze, tanto che quando ho scoperto che la moglie di Fra’ Dolcino si chiamava Margherita, come la Margherita Cagol moglie di Curcio, morta più o meno in condizioni analoghe, l’ho espressamente citata nel racconto. Forse se si fosse chiamata diversamente non mi sarebbe venuto in mente di menzionarne il nome, ma non ho potuto resistere a questa sorta di strizzata d’occhio con il lettore.
Con Baudolino, invece, mi sono trovato a rivedere tutte le situazioni della rivolta dei comuni lombardi contro Federico Barbarossa, ed era molto difficile trattare di una Lega lombarda dimenticando che ne esiste una attuale. Tanto che mi è parso estremamente divertente che oggi, come per altro nella retorica risorgimentale, sia presentata la Lega dei comuni italiani come un grande atto patriottico di rivolta verso l’invasore straniero, mentre se si va a vedere i documenti ci si accorge che non era affatto così. Questi comuni badavano solo a massacrarsi gli uni con gli altri, cambiavano alleanza, un giorno stavano con l’imperatore e un giorno contro di lui, a seconda di come potevano meglio distruggere il comune vicino. Questa è la verità storica che mi ha portato a insistere dieci righe di più su questo aspetto bizzarro della lotta dei comuni, ma se dicessi che ho scritto Baudolino per polemizzare con Bossi direi una falsità e ridurrei il mio romanzo a un piccolo pamphlet o a un articolo da settimanale.
E quale delle due dimensioni storiche che affronta nei suoi romanzi, ovvero quella politica e quella religiosa, la appassiona di più sia in termini di ricerca delle fonti che in termini di rielaborazione narrativa?
Non saprei. Qui dovremmo pensare a Il nome della rosa e a Baudolino, in cui mi sono trovato di fronte a due imperatori, a due tentativi di sottomettere i vari comuni italiani, in due epoche diversissime, al punto che quando mi sono messo a narrare avevo già la politica sul tavolo e non avrei potuto ignorarla. Invece il problema religioso dipende da alcune mie radici o da alcuni miei problemi, forse ancora irrisolti o scaturiti da antiche nostalgie per un mondo che poi ho lasciato, ma sul quale mi trovo estremamente competente, tanto da divertirmi a renderlo terreno di gioco narrativo. Mentre ne L’isola del giorno prima, che si svolge nell’età dell’assolutismo e dove i problemi politici di allora sono abbastanza lontani dai nostri, non c’è politica, se non nel fatto che a un certo punto appare Mazzarino. Viceversa Il pendolo di Foucault ritengo sia un libro di grande valore e impegno politico, in quanto ho sempre sostenuto che è una rappresentazione del fascismo eterno, alla base del quale ci sono radici occulte, la sindrome del complotto e così via. Mi è parso in sostanza di mettere in luce una mentalità che difficilmente porta a posizioni liberali e più facilmente a posizioni totalitarie. Tanto è vero che quando mi chiesero cosa mi aspettavo che dicesse il lettore alla fine di questo romanzo, risposi che sarei stato molto contento se a quel punto si buttava dalla finestra. Come a dire se il mondo è così, è meglio che me ne vada.
Eppure in romanzi tanto diversi e distanti tra loro, sia per l’ambientazione storico-politica che per l’argomentazione filosofico-religiosa, è indubbio che esistano alcune figure ricorrenti come l’inganno, il falso, il complotto, da cui scaturiscono situazioni analoghe tra le varie storie come il giallo della morte, la conquista del potere o la missione inverosimile. Come sono maturate, all’interno della Sua narrativa, queste costanti tematiche che, guarda caso, hanno tutte a che fare con il problema della conoscenza?
Certamente esistono alcuni temi come quello del falso, dell’inchiesta che procede per sbaglio o della manipolazione dei dati che mi hanno filosoficamente sempre affascinato e sui quali ho scritto diversi saggi, indipendenti dai miei romanzi, per approfondire alcuni problemi filosofici che solo in un secondo momento ho affrontato in chiave narrativa. Proprio come filosofo mi sono a lungo occupato del problema della “verità” e ho scoperto che in fondo era interessante affrontarlo attraverso il suo supposto contrario, che è appunto il falso, in virtù di una vecchia tesi che ho talvolta sostenuto, ovvero che è molto facile dire se un quadro è falso conoscendo quello autentico, mentre è assai più difficile dire se l’autentico è veramente tale. Questo è in sostanza un problema filosofico, che poi ho deciso di trattare narrativamente, ossia non cercando di dare delle risposte, ma di porre delle domande. Per altro possono esistere alcuni temi che fanno parte del vissuto o dell’inconscio di un autore, ricorrendo come costanti talvolta ossessive, che poi prendono forma a seconda di una determinata poetica. Ad esempio ci possono essere due autori ossessionati dall’incesto, per cui uno lo tratta secondo una poetica realista alla Moravia e un altro può trattarlo secondo una poetica surrealista o postmoderna.
Proprio nel suo ultimo saggio Sulla Letteratura Lei argomenta le caratteristiche della narrativa postmoderna che sono state attribuite da alcuni critici ai suoi romanzi, e che Lei stesso teorizza nelle Postille al Nome della rosa. Queste caratteristiche, come la metanarratività, il dialogismo, il double coding e l’ironia intertestuale, hanno costituito per Lei una precisa scelta di poetica, oppure sono maturate nel corso della sua esperienza narrativa?
Innanzi tutto vorrei dire che il termine postmoderno me lo hanno buttato addosso gli altri, benché io non abbia potuto protestare in quanto alcuni aspetti della poetica postmoderna sono realmente presenti nel mio lavoro. Tuttavia bisognerebbe fare chiarezza, per quanto possibile, sul concetto di postmoderno, se non altro per dire che c’è un postmoderno in architettura inventato da Charles Jenks, un postmoderno in letteratura teorizzato da John Barth e un postmoderno in filosofia proposto da Jean-Francois Lyotard e da altri che non ha nulla a che fare con i primi due, per una sorta di strano equivoco terminologico che non si può sciogliere in questa sede. Personalmente ho trovato nella tematica del postmoderno un modo interessante per rivisitare la letteratura precedente attraverso procedimenti citazionistico-ironici. Ma se ci pensiamo bene questo lo avevamo teorizzato nella seconda riunione del Gruppo ‘63, quando due anni dopo nel ‘65, si diceva che ormai il romanzo sperimentale era arrivato a un punto zero. Come in pittura si era arrivati alla tela bianca, in poesia alla pagina vuota, in musica al silenzio, così anche nella narrativa si era raggiunto un point of no return. Mi ricordo che Renato Barilli diceva di recuperare un’avventura “altra”, che non fosse quella tradizionale, ma al contrario fosse densa di nuove sperimentazioni.
Quindi quando ho iniziato a scrivere romanzi mi sono ispirato piuttosto a quei discorsi che si facevano allora in merito a un recupero della narratività attraverso l’ironia oppure, come si suol dire, la “decostruzione” narrativa, termine che però non amo usare. Da qui il mio gusto per gli incassamenti dei punti di vista, i flashback o le strutture temporali molto complesse e soprattutto per la metanarrativita’, dove il romanzo riflette su se stesso e sulla propria forma. Se tutto questo è tipico del postmoderno allora mi ci ritrovo, come nel caso del doppio codice, secondo cui se in architettura postmoderna si possono fare citazioni del frontone del Partenone o di una cupola di Borromini e poi ci può essere l’utente che coglie questa citazione basata sul gioco e sull’ironia, e quello che non la coglie ma gode ugualmente di una struttura architettonica bizzarra, altrettanto nei miei romanzi, che sono così densi di allusioni intertestuali, ci può essere questo doppio codice.
Ad esempio in Baudolino, quando il protagonista vede per la prima volta Ipazia sulla riva del lago ha certamente quella che in tutta la storia della letteratura si chiama un’epifania, cioè una visione rivelatrice. Allora mi sono divertito, in quella pagina in cui lui descrive l’emozione che prova di fronte a Ipazia, a fare un collage di tutte le più celebri epifanie della letteratura così lavorate tra loro che adesso sarei incapace di distinguere le diverse fonti. In questo modo ci può essere un lettore in grado di avvertire questo gioco ironico di citazioni che mette insieme tutte le emozioni che poi la letteratura contemporanea ha riscoperto, e ci può essere invece un lettore ingenuo, ma non per questo sciocco o sprovveduto, che non coglie questi richiami ma gode ugualmente della visione di Baudolino. Se questo è il double coding, allora certamente lo uso moltissimo e ciò può spiegare anche perché scrivo libri così difficili che tuttavia riescono a ottenere un successo molto più vasto.
Nel ricostruire storicamente i mondi dei suoi romanzi più volte Lei ha asserito di sperimentare personalmente le caratteristiche e le dimensioni “tangibili” di queste realtà attraverso viaggi, esplorazioni e ricerche. Eppure la sua narrativa è intrisa di aspetti immaginari, assurdi, surreali che sembrano non avere alcun nesso con una realtà storica o empirica. Esistono degli elementi puramente inventati, frutto di un’operazione di fantasia all’interno della sua opera narrativa?
Assolutamente no. Anche quelle cose che i miei lettori hanno trovato più surreali, assurde o inverosimili, io le ho riscontrate nelle fonti, erano tutte vere. Le faccio un esempio. Ne L’isola del giorno prima c’è Padre Kaspar che per studiare i satelliti di Giove si costruisce una strana bacinella piena di olio sulla quale monta un treppiede con un telescopio, che naturalmente non può che provocare, con il rollio della nave e il conseguente rovesciamento, una situazione da film comico di Ridolini. Tutta questa macchina è stata descritta in una lettera di Galileo che ha cercato di venderla agli olandesi, i quali saggiamente non l’hanno comprata perché avranno letto la sua lettera, come l’ho letta anch’io. Infatti basta vedere questa lettera per capire come ne possa uscire una scena comica, ma c’è già tutto lì, non occorre inventare nulla. Anche le stesse discussioni che fanno i miei personaggi sul vuoto o su altri argomenti sono tutte documentate e non hanno nulla di inventato. Quello che piuttosto cerco di fare è tirare fuori le cose più assurde dalla verità storica, che poi metto in scena rendendole grottesche o paradossali. E allora sono storici anche i mostri di Baudolino, non perché siano esistiti ma perché sono stati veramente descritti dalle mie fonti.
Ricordo, ad esempio, che riguardo Il nome della rosa mi dicevano che, pur essendo un romanzo storico, il discorso che fa Guglielmo all’assemblea delle due delegazioni sulla politica si rivela di una grande modernità. È invece un collage quasi parola per parola di testi di Guglielmo di Occam e di Marsilio da Padova. Piuttosto il mio gusto, per così dire postmoderno, consiste nel mostrare come questi testi, riletti oggi, possano sembrare delle vere e proprie dichiarazioni di liberalismo laico. Naturalmente qui esiste la malizia del montaggio con cui scelgo le parti che a me paiono più significative, per poi montarle secondo un ordine in base al quale oggi non sarei nemmeno più capace di dire cos’era di Marsilio e cosa di Guglielmo, per quanto avessero alcune idee piuttosto diverse. A ogni modo il mio punto di partenza consiste sempre nell’impegno di far dire o fare ai miei personaggi delle cose che avrebbero potuto dire o fare all’epoca, cercando anche di mettermi nelle loro stesse condizioni psicologiche, per poi magari cambiare tutto, ma rimanendo comunque sempre fedele alle mie fonti.
Intervista di Alessandra Fagioli