Lo scienziato dissidente di Joseph Rotblat
Chi ha amato Lettera Internazionale cartacea e adesso ci segue sul sito sa che noi abbiamo il nostro modo di reagire agli eventi che ci accadono intorno nel mondo. Quello che ripresentiamo è un testo dedicato idealmente a Donald Trump e a Kim Jong-un.
«Abbiamo imparato abbastanza da non ripetere gli errori commessi nel 1945 ?», si chiede Joseph Rotblat (1908-2005) in questo testo scritto nell’agosto 1985 e pubblicato originariamente sul Bulletin of the Atomic Scientists e in italiano nel n. 87/2006 di Lettera Internazionale.
Rotblat lavorò come fisico al Manhattan Project fino a quando non si rese conto che la bomba atomica in costruzione non era destinata ai nazisti ma ai sovietici, alleati degli Usa contro la Germania. Fece i bagagli e lasciò Los Alamos per fare ritorno in Gran Bretagna e dedicarsi alla medicina nucleare e alla promozione della cultura della pace. Insieme a Bertrand Russell fondò nel 1957 in piena Guerra Fredda, la Pugwash Conferences on Science and World Affairs che venne insignita del Premio Nobel per la Pace nel 1995.
Qualcuno ricorda il nome di questo scienziato? Eppure, forse, è anche grazie a lui e a scienziati responsabili come lui se il mondo è riuscito a evitare altre distruzioni di massa analoghe a quelle del 1945. Ecco dunque che cosa scriveva Rotblat.
Lavorare al progetto Manhattan fu un’esperienza traumatica. Non capita spesso a un uomo di partecipare alla nascita di una nuova era. Alcuni vengono segnati per tutta la vita. Io sono uno di questi.
Un “puro” lavoro di ricerca
Al principio del 1939, quando ebbi notizia della scoperta della fissione nucleare, lavoravo presso il laboratorio radiologico di Varsavia. Lo dirigeva Ludwik Wertenstein, allievo di Marie Curie e pioniere dello studio della radioattività in Polonia. La nostra fonte di radiazioni consisteva di 30 milligrammi di radio in soluzione; periodicamente, aspiravamo il radon accumulato in un tubo pieno di polvere di berillio. Con questa minima fonte di neutroni riuscivamo a condurre molti esperimenti, trovandoci addirittura a competere con la famosa squadra di Enrico Fermi, che lavorava a Roma, per la scoperta dei radionuclidi. Il nostro successo più eclatante fu la dimostrazione della diffusione inelastica dei neutroni; la mia tesi di dottorato fu su questo argomento.
Nei primi esperimenti sulla diffusione inelastica, avevamo usato l’oro come diffusore. Per la fine del 1938, avevo iniziato a impiegare l’uranio, e quando appresi della fissione dell’uranio, non tardai a verificare sperimentalmente se i neutroni venissero emessi con la fissione. E scoprii che così avviene – di fatto, il numero di neutroni emessi è maggiore rispetto a quelli che producono fissione. Partendo da questa scoperta, era un esercizio intellettuale piuttosto semplice immaginare una reazione a catena divergente che liberasse grandi quantità di energia. Ne conseguiva logicamente che se quest’energia veniva liberata in un tempo estremamente breve, il risultato sarebbe stato un’esplosione di potenza inaudita. Parecchi scienziati di altri paesi, compiendo ricerche analoghe, giunsero a ragionamenti simili, anche se non immaginarono necessariamente la stessa reazione.
Personalmente, reagii rimuovendo l’intera questione, come una persona che cercasse d’ignorare il primo sintomo di una malattia mortale, nella speranza di farla svanire. Ma la paura ci tormentava comunque, e la mia paura era che qualcuno potesse mettere in pratica questa idea. Il pensiero che sarei stato io stesso a farlo non mi sfiorava nemmeno, perché mi era completamente alieno. Sono stato educato secondo princìpi umanitari. A quel tempo la mia vita era incentrata sul “puro” lavoro di ricerca, ma ho sempre creduto che la scienza debba essere impiegata al servizio dell’umanità. L’idea di usare le mie conoscenze per produrre una tremenda arma di distruzione mi sembrava aberrante.
Nei timori che mi attanagliavano, il “qualcuno” che avrebbe potuto mettere in pratica la teoria era definito con precisione: gli scienziati tedeschi. Non dubitavo che i nazisti non avrebbero esitato a impiegare qualsiasi mezzo, per quanto disumano, pur di garantire il trionfo planetario della loro dottrina. In questo caso, avremmo dovuto addentrarci nella teoria per scoprire se la paura avesse fondamenti reali? Tentare di venire a capo di questo dilemma era snervante, e perciò fui lieto quando un’altra questione pressante mi diede una scusa per pensare ad altro.
Si trattava del mio trasferimento a Liverpool, in Inghilterra, dove avrei dovuto passare un anno per una borsa di studio col professor James Chadwick, lavorando sul ciclotrone che era in fase di completamento. Era il mio primo viaggio all’estero, e il cambiamento mi tenne occupato sia prima del viaggio, nell’aprile del 1939, che un po’ di tempo dopo, dato che parlavo pochissimo l’inglese, e mi ci volle parecchio per ambientarmi.
Il tormento proseguì per tutta la primavera e l’estate. Si intensificò mano a mano che diventava sempre più chiaro che la Germania si stava preparando alla guerra. E divenne acuto quando, su Naturwissenschaften, lessi un articolo di S. Flugge che menzionava la possibilità di esplosivi nucleari.
Gradualmente, escogitai una motivazione razionale per studiare la fattibilità della bomba. Mi convinsi che il solo sistema per impedire ai tedeschi di usarla contro di noi era di averla a nostra volta, e di minacciare una rappresaglia. I miei progetti non prevedevano affatto di usarla, nemmeno contro i tedeschi. Avevamo bisogno della bomba solo per assicurarci che non l’avrebbero usata loro: lo stesso argomento che avanzano oggi i sostenitori della strategia della deterrenza.
Col senno di poi, comprendo la stupidità della tesi della deterrenza, oltre a notare un certo numero di falle nel mio ragionamento. Innanzi tutto, non avrebbe funzionato con uno psicopatico come Hitler. Se avesse avuto la bomba, è molto probabile che il suo ultimo ordine, dal bunker di Berlino, sarebbe stato di distruggere Londra, anche se questo avesse comportato una terribile ritorsione. L’avrebbe probabilmente percepito come un’uscita di scena eroica, una Götterdammerung.
Il mio pensiero di allora richiedeva di accertare la fattibilità della bomba, in un modo o nell’altro, e con la più grande urgenza. Eppure non riuscivo a superare i miei scrupoli. Sentivo il bisogno di parlarne con qualcuno, ma il mio inglese era troppo approssimativo per discutere di un problema tanto delicato con i miei colleghi di Liverpool.
Nell’agosto del 1939, essendomi recato in Polonia per motivi personali, colsi l’opportunità per incontrare Wertenstein e sottoporgli il mio dilemma. L’idea di un’arma nucleare non gli era venuta in mente, ma quando gli mostrai le bozze dei miei calcoli non vi trovò alcun errore scientifico. Per quanto riguardava l’aspetto morale della questione, tuttavia, non voleva darmi un parere. Personalmente, lui non avrebbe mai intrapreso quel genere di ricerche, ma non avrebbe cercato di influenzarmi. La decisione doveva essere lasciata alla mia coscienza.
La guerra scoppiò due giorni dopo il mio ritorno a Liverpool. In poche settimane la Polonia fu occupata. L’idea che la forza militare di Hitler fosse un bluff, e che i suoi carri armati fossero di cartone dipinto, si rivelò una pia illusione. La potenza della Germania era ben visibile, e la nostra intera civiltà correva un pericolo mortale. I miei scrupoli erano finalmente stati vinti.
Los Alamos: un “luogo strano e meraviglioso”
Per il novembre del 1939, il mio inglese era abbastanza buono da permettermi di tenere una serie di lezioni di fisica nucleare presso la Honors School dell’università di Liverpool. Ma i ricercatori anziani del dipartimento erano spariti: erano andati a lavorare al radar e ad altri progetti bellici. Dovetti quindi avvicinarmi direttamente a Chadwick, con un abbozzo del mio progetto per la ricerca sulla fattibilità della bomba atomica. Com’era nel suo stile, Chadwich rispose con un grugnito, e non lasciò trapelare se avesse già preso in considerazione un progetto analogo. Più tardi seppi che altri scienziati, nel Regno Unito, avevano avuto la stessa idea, e alcuni erano anche spinti dalle mie stesse motivazioni.
Pochi giorni dopo, Chadwick mi disse di portare avanti il progetto, e mi affidò due giovani assistenti. Uno di essi poneva però un problema. Era un quacchero, e in quanto tale si era rifiutato di compiere ricerca bellica. Era quindi stato inviato a Liverpool per svolgere compiti accademici – ma fu assegnato a me, per lavorare alla bomba atomica! Non potevo svelargli la reale natura delle nostre ricerche, e mi rimordeva la coscienza a sfruttarlo in maniera così poco etica. L’idea principale che sottoposi a Chadwick era che, in una bomba atomica, la reazione avrebbe dovuto essere propagata da neutroni veloci, oppure non sarebbe stata diversa da quella di un comune esplosivo chimico. Era quindi importante misurare la sezione d’urto dei neutroni veloci, la distribuzione dell’energia dei neutroni veloci, la loro diffusione inelastica, e la proporzione dei neutroni catturati senza che scatenassero la reazione. Era anche essenziale scoprire se neutroni vaganti avrebbero potuto provocare una reazione prematura, il che equivaleva a determinare la probabilità di fissione spontanea dell’uranio.
Formammo una piccola squadra di fisici giovani ma appassionati e usammo il ciclotrone per venire a capo di alcuni di questi problemi. Più tardi si unì a noi Otto Frisch, che misurò la sezione d’urto della fissione nucleare veloce. Ebbi l’idea di usare il plutonio, ma non avevamo modo di produrne. Il risultato di queste ricerche fu che riuscimmo a stabilire che, da un punto di vista scientifico, la bomba era fattibile. Tuttavia, divenne anche chiaro che per produrla sarebbe stato necessario un ampio impiego di risorse umane e di tecnologia, ben oltre le capacità industriali di una Gran Bretagna in guerra. Si giunse alla decisione di collaborare con gli americani. E così mi ritrovai a Los Alamos, un “luogo strano e meraviglioso”.
Nel marzo del 1944 ebbi una sorpresa piuttosto sgradevole. Abitavo con i Chadwick, nella loro casa sulla Mesa, e solo più tardi mi trasferii nella Big House, la residenza destinata ai ricercatori scapoli. Il generale Leslie Groves, quando veniva a Los Alamos, si fermava spesso dai Chadwick a cena e per fare quattro chiacchiere. Durante una di queste conversazioni, il generale disse che, ovviamente, il vero scopo della bomba era sottomettere i sovietici. (Quali che fossero i termini esatti che usò, il senso era chiaro). Anche se non mi facevo illusioni riguardo al regime stalinista – dopo tutto, il suo patto con Hitler aveva permesso a quest’ultimo di invadere la Polonia – sentii che stavamo, di fatto, tradendo un alleato. Diceva queste cose mentre migliaia di russi morivano ogni giorno sul fronte orientale, per tenere inchiodati i tedeschi e dare tempo agli alleati di preparare lo sbarco in Europa. Fino ad allora avevo creduto che il nostro lavoro fosse quello di contrastare la vittoria nazista, e adesso mi dicevano che l’arma che stavamo approntando avrebbe dovuto essere usata contro un popolo che stava compiendo enormi sacrifici per la nostra stessa causa.
Le mie preoccupazioni riguardo lo scopo della bomba crebbero parlando con Niels Bohr. Aveva l’abitudine di venire in camera mia alle otto del mattino per ascoltare le notizie della BBC. Come me, non sopportava i giornali radio statunitensi, che pubblicizzavano continuamente un certo lassativo! Avevo una radio speciale, con la quale potevo ricevere il segnale del BBC World Service. Talvolta Bohr si tratteneva e mi parlava delle implicazioni sociali e politiche della scoperta dell’energia nucleare, e delle sue preoccupazioni per le conseguenze della corsa agli armamenti nucleari da parte dei due blocchi, Est e Ovest, di cui prevedeva la formazione. Questi fatti, oltre all’impressione crescente che la guerra in Europa sarebbe finita prima che potessimo portare a termine il nostro progetto, resero inutile la mia partecipazione. Se agli americani ci voleva tutto quel tempo, la mia paura che i tedeschi ci riuscissero per primi era priva di fondamento. Verso la fine del 1944, quando risultò evidente che i tedeschi avevano abbandonato il progetto bomba, le ragioni che mi trattenevano a Los Alamos cessarono di esistere, e chiesi il permesso di partire per tornare in Gran Bretagna.
Dal fattore tedesco al fattore sovietico
Perché altri scienziati non presero la mia stessa decisione? Non c’era da aspettarsi, ovviamente, che il generale Groves sospendesse il progetto non appena la Germania fosse stata sconfitta, ma per molti scienziati il fattore tedesco era la motivazione principale. Perché non si fermarono, quando questo fattore venne a mancare?
Dopo aver dichiarato di voler lasciare Los Alamos, non avevo il permesso di discutere di questo argomento con nessuno, ma alcune conversazioni precedenti – e altre, di molto successive – misero in evidenza alcune motivazioni.
Il motivo addotto più di frequente era la pura e semplice curiosità scientifica – il desiderio di verificare se i calcoli, la teoria e le previsioni si sarebbero tradotti in realtà. Questi scienziati ritenevano che solo dopo il test di Alamogordo si sarebbe dovuto aprire il dibattito riguardo all’uso della bomba.
Altri erano disposti a rimandare il problema ancora più a lungo, convinti che molte vite americane si sarebbero salvate se la bomba avesse messo rapidamente fine alla guerra con il Giappone. Solo quando la pace fosse stata ristabilita, si sarebbero impegnati per assicurarsi che la bomba non fosse mai più utilizzata.
Altri ancora, pur riconoscendo che il progetto si sarebbe dovuto arrestare quando il fattore tedesco avesse smesso di essere determinante, non erano disposti a prendere posizione personalmente, perché temevano che la loro carriera futura ne avrebbe risentito.
I gruppi che ho descritto – scienziati dotati di una coscienza sociale – erano una minoranza, nella comunità scientifica. La maggior parte non si curava di questioni morali: erano felici di lasciar decidere ad altri in quale modo le loro ricerche avrebbero dovuto essere impiegate. Una situazione analoga esiste anche oggi, in molti paesi, per quanto riguarda le ricerche in campo militare. È soprattutto la questione morale in situazione di guerra a rendermi perplesso e a preoccuparmi.
Recentemente, mi è capitato di leggere un documento pubblicato grazie al Freedom of Information Act. È una lettera, datata 25 maggio 1943, scritta da Robert Oppenheimer a Enrico Fermi, sull’uso militare di materiale radioattivo e, nello specifico, sull’avvelenamento delle derrate alimentari tramite stronzio radioattivo. Il rapporto Smyth allude a tale ipotetica minaccia da parte dei tedeschi, ma apparentemente Oppenheimer riteneva che l’idea fosse degna di essere presa in considerazione, e domandò a Fermi se avrebbe potuto produrre lo stronzio senza mettere troppe persone a parte del segreto. E prosegue: “Credo che non dovremmo provare a metterlo in pratica a meno di non poter avvelenare cibo sufficiente a uccidere mezzo milione di persone”. Sono certo che, in tempo di pace, questi stessi scienziati avrebbero giudicato barbaro un progetto del genere; non l’avrebbero formulato nemmeno per ipotesi. Eppure, durante la guerra, fu preso in seria considerazione, e abbandonato, presumo, solo perché tecnicamente irrealizzabile.
Dopo aver rivelato a Chadwick che desideravo lasciare il progetto, lui mi riferì alcune notizie estremamente inquietanti. Quando aveva trasmesso il mio desiderio al responsabile dell’intelligence di Los Alamos, gli era stato mostrato un grosso dossier su di me, contenente prove schiaccianti. Il succo della questione era che io ero una spia: avevo preso contatti a Santa Fe per tornare in Inghilterra, ed essere successivamente paracadutato nei territori polacchi controllati dai sovietici, per svelare loro i segreti della bomba atomica. Il problema era che in questo cumulo di menzogne vi era un briciolo di verità: avevo effettivamente incontrato una persona durante i miei viaggi a Santa Fe, e avevamo parlato. Era stato per un motivo puramente altruistico, niente a che vedere con il progetto, e avevo anche il permesso di Chadwick. Nondimeno, avevo contravvenuto a una delle disposizioni di sicurezza, e ciò mi rendeva sospetto.
Fortunatamente per me, nel loro zelo gli agenti che mi sorvegliavano avevano inserito nei loro rapporti dettagli delle conversazioni e date che erano piuttosto facili da confutare, rivelando il tutto per ciò che era realmente: una completa invenzione. Il capo dell’intelligence era molto imbarazzato, e ammise che il dossier era privo di valore. Tuttavia insistette affinché io non rivelassi a nessuno i motivi per cui abbandonavo il progetto. Ci mettemmo d’accordo con Chadwick che la ragione ufficiale sarebbe stata del tutto personale: ero preoccupato per mia moglie che avevo lasciato in Polonia.
E così, la vigilia di Natale del 1944 mi imbarcai per il Regno Unito, non senza un ultimo incidente. Prima di lasciare Los Alamos avevo messo tutti i miei documenti – appunti di ricerca, corrispondenza e altro – in uno scatolone che aveva preparato il mio assistente. Strada facendo, avevo fatto tappa per qualche giorno dai Chadwick a Washington. Lo stesso Chadwick mi aveva aiutato a caricare lo scatolone sul treno per New York. Ma quando giunsi, poche ore dopo, lo scatolone era scomparso. Né, nonostante tutti i miei sforzi, fu mai ritrovato.
Prevenire la guerra nucleare
Come ho detto all’inizio, lavorare al Progetto Manhattan mi ha segnato per tutta la vita. Di fatto, ha mutato radicalmente la mia carriera scientifica e il modo in cui ho assolto ai miei doveri nei confronti della società.
Lavorare alla bomba atomica mi aveva fatto capire che anche la pura ricerca presto trova applicazione, in un modo o nell’altro. Se era così, volevo essere io stesso a decidere come dovesse essere applicato il mio lavoro. Scelsi una branca della fisica nucleare che sarebbe stato certamente d’aiuto all’umanità: le applicazioni mediche. Di conseguenza, cambiai completamente l’orientamento della mia ricerca, e passai il resto della mia carriera accademica lavorando in una facoltà di medicina e in un ospedale.
Se da una parte questo mi dava soddisfazioni personali, ero d’altro canto sempre più preoccupato per gli aspetti politici dello sviluppo delle armi atomiche, in particolare della bomba all’idrogeno, della quale avevo avuto notizia a Los Alamos. Mi impegnai quindi sia per mettere in guardia la comunità scientifica del pericolo, sia per informare il pubblico di questa minaccia. Sono stato in prima fila nell’avviare l’Associazione degli Scienziati Atomici in Gran Bretagna, e nel suo quadro ho organizzato il Treno Atomico, un’esposizione itinerante che spiegava al pubblico gli aspetti positivi e negativi dell’energia nucleare. Grazie a queste attività sono entrato in contatto con Bertrand Russell. Questa collaborazione portò all’organizzazione del convegno di Pugwash [1957], in cui ebbi l’occasione di rivedere alcuni colleghi del Progetto Manhattan, anch’essi preoccupati della minaccia universale che si profilava anche per via delle loro ricerche.
Dopo quarant’anni una domanda continua ad assillarmi: abbiamo imparato abbastanza da non ripetere gli errori commessi allora? Non sono sicuro nemmeno di me stesso. Non essendo un pacifista assoluto, non posso assicurare che non mi comporterei allo stesso modo, se si presentasse una situazione analoga. Il nostro concetto di moralità sembra saltare, una volta che inizia un’azione bellica. È quindi essenziale impedire che tale situazione si sviluppi. Il nostro sforzo primario deve concentrarsi sulla prevenzione della guerra nucleare perché, in una guerra del genere, non solo la nostra morale, ma lo stesso tessuto della nostra civiltà scomparirebbe. Tuttavia, il nostro scopo ultimo, è l’eliminazione di tutte le guerre.
Traduzione di Giulia Tiradritti
(dal Bulletin of the Atomic Scientists, August 1985)