Cambiare Europa o cambiare l’Europa? Pierre Dardot e Christian Laval

In Europa tira una brutta aria, e in Francia più che altrove: è l’aria del nazionalismo. Se ne parla molto, ma di che tipo di nazionalismo si tratta? In un frammento del 1888, scritto a Sils Maria in una pausa tra i suoi due soggiorni torinesi, Nietzsche, che allora stava lavorando al Caso Wagner, afferma convintamente la superiorità spirituale degli ebrei nel contesto di un’«Europa incerta».

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Essi, infatti, essendosi difesi per secoli dalle persecuzioni, avrebbero acquisito quella forza che ha permesso ai loro migliori rappresentanti, Heine e Offenbach, di rendere la cultura europea una «cultura al quadrato». Scrive dunque Nietsche: «Agli ebrei, la loro intelligenza impedisce di essere assurdi nel modo in cui lo siamo noi: per esempio, di essere nazionalisti. Si direbbe che siano stati un tempo troppo bene vaccinati – e vaccinati in un modo alquanto sanguinario – e questo presso tutte le nazioni: non sono facilmente vittime della nostra “rabies”, la rabies nationalis».[1]

Darius Ziura, Visuali, Scacchi, 2006-2007-120
Darius Ziura, Visuali, Scacchi, 2006-2007-120

Nello specifico, con l’espressione «rabbia nazionalista», il filosofo dello Zarathustra faceva segno al nazionalismo e al pangermanismo tedesco, incarnati per lui dalle odiate figure della sorella e del fratellastro Bernhard Förster, adepti della purezza ariana. Per lui queste posizioni erano l’espressione di una rivolta mossa da «rabbia impotente» e da «risentimento».

Ebbene, il nazionalismo che si afferma tra i nostri contemporanei è profondamente diverso dall’oggetto delle invettive nietzscheane. Il nazionalismo degli anni Ottanta dell’Ottocento, infatti, si iscriveva in un contesto di affermazione della sovranità nazionale in Europa, che muoveva dalle insurrezioni popolari del 1848 e che in seguito si è esacerbato fino rendere esplosive le rivalità tra gli stati europei. Il nazionalismo di cui siamo testimoni oggi, invece, si sviluppa in un contesto del tutto diverso e duplice. Da un lato, quello dell’avanzata erosione degli stati nazionali a causa della globalizzazione; dall’altro, quello della messa in causa di questa stessa sovranità da parte del processo di costruzione politica dell’Europa, che chiameremo sinteticamente “costruzione europea”. E infatti oggi non sono più soltanto le entità regionali ad aspirare allo status di nazione (gli scozzesi, i catalani, i fiamminghi…), ma interi settori di elettorato europeo, che vorrebbero ritrovare una sorta di indipendenza nazionale in qualche modo confiscata dall’“eurocrazia di Bruxelles”. In questo senso, le ultime elezioni europee sono state un vero teatro della rabbia nazionalista, proprio in virtù del dilagare di questo desiderio di restaurazione di una sovranità nazionale perduta. Ora, se si vuole contenere la progressione del nazionalismo in Europa, è essenziale innanzitutto comprenderne le cause.

Il fallimento della deflazione punitiva

Il nazionalismo punta a realizzare un “grande balzo indietro” che restauri le prerogative statali nazionali in materia di immigrazione, di scelte commerciali, monetarie e di allocazione delle risorse. In un contesto di disoccupazione di massa, di precarizzazione e di perdita del potere di acquisto del salario, il ritorno a una piena sovranità economica e monetaria costituisce per i nazionalisti la sola risposta alle disastrose politiche di austerità portate avanti in Europa negli ultimi anni.

Alcuni politici europei, come Matteo Renzi, reputano questa febbre nazionalistica un male passeggero: secondo loro, per arginarla basterebbe una politica di austerità più “flessibile” e più “intelligente”. Come a dire che a tenere l’Europa in una condizione di crisi economica, sfociante in crisi politica latente, ci sarebbe solo la testardaggine ottusa di Angela Merkel. La loro idea è che con una piccola dose di nuovo keynesismo a base di investimenti europei e di smussamenti della politica monetaria si potrebbe addolcire quella deflazione punitiva che unisce abbassamento dei salari e riduzione della spesa pubblica. Questo punto di vista, se non altro, ha un merito: mettere in chiaro il fallimento totale della strategia deflazionistica per l’abbassamento del deficit e del debito pubblico, non rimanendo completamente ciechi di fronte alle conseguenze sociali e politiche dell’austerità. Il fatto che questa posizione possa esprimersi tra la classe dirigente, comunque, è indubbia dimostrazione dell’impasse della vulgata economica dominante in Europa, per la quale la responsabilità della crisi del debito sarebbe da imputare interamente a una mala gestione della cosa pubblica da parte dei paesi dell’Europa del Sud, che dovrebbero quindi essere trasformati in profondità da “riforme strutturali”. Tuttavia, contro i fautori dell’austerity morbida, è altrettanto evidente che le opportunità di riconversione futura della politica congiunturale di austerity sono deboli, e le illusioni di un compromesso tra neoliberismo e keynesismo tendono sempre più rapidamente a svanire.

Ora, la causa di questa impasse non è solo da imputarsi all’attuale condizione dei rapporti di forza tra i partiti politici europei, ma agli stessi princìpi della costruzione europea, che non ammettono altro che piccoli e modestissimi aggiustamenti marginali. Per fare solo qualche esempio: come possono i paesi europei ritrovare la via della crescita economica, mirare al pieno impiego e a servizi pubblici di qualità se il “dumping sociale e fiscale” continua a regnare in quanto legge suprema delle relazioni tra i paesi membri dell’Unione?

Una crisi dei fondamenti

La crisi europea è di natura strutturale, certo, ma non nel senso attribuito a questo aggettivo dalla lingua ufficiale delle classi dirigenti. Il funzionamento attuale dell’Europa, infatti, obbedisce ai princìpi dell’ordoliberalismo, forma specifica di neoliberismo sposata già a partire dagli anni Cinquanta dagli artefici della costruzione europea. L’ordoliberalimo si definisce, in sintesi, con tre “regole d’oro”: stabilità monetaria, pareggio di bilancio e regime di libera concorrenza. Queste tre regole d’oro sono state di fatto “costituzionalizzate” dai trattati fondativi dell’Unione Europea e iscritte nel DNA delle sue istituzioni. E così, a partire dagli anni Cinquanta, si è cominciato pian piano a stringere questa sorta di corsetto disciplinare attorno all’Europa. Col tempo, la stretta si è rafforzata, trattato dopo trattato, fino a rappresentare, oggi, un obbligo istituzionale di cui le classi dirigenti europee non riescono più ad allentare la morsa, pur avvertendo la necessità e l’urgenza di farlo. Ancora fino a poco tempo fa, ogni cosa fatta in Europa era ordinata secondo i princìpi del fiscal compact, e nessun Paese poteva venir meno alle regole d’oro a meno di non incorrere in sanzioni immediate.

C’è una logica in questa costrizione. L’integrazione europea è stata realizzata attraverso l’instaurazione del più rigido quadro giuridico, monetario e di bilancio possibile, all’interno del quale tutte le unità economiche avrebbero dovuto lottare l’una contro l’altra, in un regime di concorrenza economica più ampia possibile. Le istituzioni europee, dal canto loro, dovevano incaricarsi di garantire la lealtà di questa concorrenza, nell’ottica di dare massima soddisfazione al consumatore europeo. Parallelamente, la libertà di circolazione delle merci, dei capitali e degli uomini avrebbe dovuto assicurare una condizione di pace stabile tra i paesi dell’Unione. Una simile integrazione economica, il cui cardine è senz’altro rappresentato dalla moneta unica, avrebbe inoltre dovuto livellare le differenze tra i vari paesi dell’Unione, uniformare le condizioni e i livelli di vita, unificare i mercati dei fattori produttivi. Ora, è proprio questa prospettiva idilliaca che negli ultimi anni ha cominciato a essere messa in causa. Per affrontare la crisi della moneta e del debito, i politici europei hanno intensificato il regime di concorrenza consustanziale alla fondazione dell’Unione. Lungi dall’intraprendere una via più sociale, più cooperativa e più solidale, l’orientamento neoliberista europeo si è dunque radicalizzato: la crisi dei debiti pubblici, seguita alla crisi finanziaria, è stata utilizzata addirittura come mezzo d’accelerazione delle trasformazioni degli stati e delle società secondo i princìpi neoliberisti del mercato e dell’impresa. È accaduto però che la “normalizzazione” operata dai men in black della Troika scatenasse tensioni sociali e politiche inedite in molti paesi europei, e questo ha iniziato effettivamente a produrre qualche tentennamento nelle classi dirigenti rispetto alla prospettiva di continuare ad accelerare a ogni costo la flessibilità del lavoro, l’abbassamento della fiscalità relativa alle imprese e l’indebolimento delle protezioni sociali e dei servizi pubblici.

Un “accordo costituzionale” tra stati

Se queste sono le condizioni, è evidente che non è più possibile accontentarsi della prospettiva di una “riconversione” della politica europea. Perché bisogna ribadire con forza che è stata la politica di concorrenza sfrenata tra gli Stati e il disprezzo per la volontà popolare da parte delle classi dirigenti europee a costituire il terreno fertile per l’exploit del nazionalismo. Per questa ragione, si deve innanzitutto rompere con la logica ordoliberale che ha presieduto fin dagli albori alla costruzione europea. Secondo la logica ordoliberale, le tre “regole d’oro” definirebbero lo zoccolo duro di una “costituzione economica” che si deve iscrivere nel diritto costituzionale positivo dello Stato, conferendole un carattere sistemico di determinazione a priori dei limiti dell’intervento pubblico. Nello spirito di questa dottrina, l’elaborazione di una simile costituzione è monopolio di scienziati dell’economia e del diritto e deve dare corpo a un contratto tra lo Stato e i cittadini.

Quando cominciarono ad affermarsi le tesi ordoliberali, negli anni Cinquanta, la difficoltà di tutto questo ragionamento stava nel fatto che non c’era alcun diritto costituzionale positivo dell’Europa, perché non esisteva uno “Stato europeo”. Si è quindi cominciato a mettere in opera tutta una serie di regole, scommettendo sull’effetto domino del “successo economico” garantito da una vasta adesione politica ai princìpi ordoliberali. Si riteneva che, raggiunto un determinato stadio, si sarebbe dovuto dare a tutte queste regole un carattere costituzionale, senza più dover attendere l’ipotetica creazione di una costituzione europea nel senso statale del termine. Anzi, proprio questa forma di costituzionalizzazione avrebbe reso superflua l’instaurazione di una costituzione sovranazionale di tipo statuale. L’originalità della formula del “Trattato costituzionale”, che ha poi portato al Trattato di Lisbona, è stata proprio questa: conferire alle suddette tre “regole d’oro” l’intangibilità di un principio costituzionale senza dover passare attraverso l’elaborazione di una costituzione nel senso classico (statuale) del termine. Si è consumato così un vero e proprio atto di forza, passato relativamente inosservato.

Vale la pena, in questo senso, richiamare il dibattito che seguì la ratifica del Trattato di Maastricht in Germania. Nel 1994 il giurista Dieter Grimm affermò che ogni costituzione presuppone un atto costituente del popolo e che dunque i trattati che avevano sancito l’integrazione europea erano da considerarsi sprovvisti di valore costituzionale, in quanto, appunto, frutto di accordi tra stati. Gli rispose Jürgen Habermas, argomentando che, nel caso dell’Europa, il concetto di sovranità popolare doveva essere dissociato da quello di «popolo sostanziale» come soggetto del potere costituente. E così si è continuato ad andare avanti su questa strada, redigendo un “trattato costituzionale” che non aveva granché a che vedere con una “costituzione” in senso proprio. Di fatto, però, la formulazione ibrida rappresentava un vantaggio nel quadro dell’obiettivo che gli ordoliberali si erano prefissati: anche come frutto di accordi interstatali questa forma giuridica era sufficiente a costituzionalizzare le famose “regole d’oro”. Veniva così schivata l’alternativa tra accordo statale o costituzione, ma certo non nel senso auspicato da Habermas all’epoca, e cioè quello dell’affermazione di una forma di sovranità più estesa rispetto a quella del popolo sostanziale. Quando leggiamo alla prima riga dell’articolo 1 del Trattato di Lisbona il cenno alla «volontà dei cittadini e degli stati d’Europa», ci risulta comunque impossibile interpretarla nel senso di un riconoscimento di due soggetti costituenti diversi, ovvero i cittadini da una parte e gli stati dall’altra.[2] La congiunzione «e» non mostra infatti alcun valore sintetico: non aggiunge alcuna specifica qualità giuridica alla formula, perché di fatto è solo in quanto cittadini di uno Stato membro che si può essere considerati cittadini dell’Unione Europea. In altri termini, i diritti riconosciuti ai cittadini europei sono loro attribuiti esclusivamente in quanto essi sono cittadini di uno Stato membro. E così tutti i processi di contrattazione, e i vari trattati che ne sono scaturiti, hanno portato solo a un accordo interstatale promosso al rango di atto costituzionale. Tuttavia, per dare a questo trucchetto tra classi dirigenti almeno l’apparenza di un “contratto” stipulato con i cittadini-elettori (in conformità con la finzione ordoliberale della “costituzione”), bisognava pure che i popoli d’Europa fossero invitati a ratificare il patto.

La sovranità della “costituzione”

Perché era così essenziale che le famose “regole d’oro” venissero scolpite nel marmo? La ragione discende, in effetti, dall’idea di «costituzione economica». Walter Eucken, il padre della dottrina ordoliberale, ha teorizzato che questo tipo di costituzione è strettamente analoga alla costituzione politica, rivestendo la stessa funzione di garantire, in virtù di un numero ridotto di regole di base, la compatibilità delle libertà individuali con l’interesse generale: nello specifico, l’equilibrio tra le libertà economiche individuali e l’interesse economico generale. Per quanto possa apparire incongrua, tale nozione gioca invece un ruolo cruciale nella questione, essendo all’origine della concezione dell’ordine monetario come ordine giuridico a tutti gli effetti: la costituzione economica è pensata come argine alle pressioni degli interessi particolari (banche, lobby e sindacati) e garanzia dell’indipendenza della banca centrale. Proprio come la costituzione giuridica di uno Stato di diritto, cioè, anch’essa riposa sul principio democratico della separazione dei poteri. Tuttavia, così come in una democrazia politica un’istanza unica non può contemporaneamente definire ed esercitare il diritto, allo stesso modo, nell’ordine monetario, gli stati non possono decidere la politica monetaria. Il guadagno di tutta questa operazione di ridefinizione della democrazia risulta notevole in termini ordoliberali, giacché la democrazia stessa viene ad essere garantita dall’indipendenza della banca centrale, e la politica monetaria viene così sottratta a qualunque decisione pubblica.

Ora, è davvero il caso di stupirsi di questa logica e di vederla come un affronto al Trattato di Lisbona? In realtà, si capisce che è in tutto e per tutto conforme a esso: si è dato semplicemente a un antico principio liberale borghese un nuovo significato ordoliberale. Nel suo Teoria della costituzione (1928), Carl Schmitt nota che è stato principalmente con la Monarchia di Luglio che i “Dottrinari” (tra cui Royer-Collard) si sono sperticati nel qualificare la costituzione (la «Carta», all’epoca) come «sovrana», con l’intento di innalzare l’apparato legislativo borghese della libertà e della proprietà privata al di sopra di ogni scelta di fazione politica. Per Schmitt, la costituzione è soltanto una norma fondamentale, e nessuna norma può essere sovrana, ma solo un soggetto concreto, che sia il popolo o il re, perché solo questo soggetto è in grado di volere e di comandare.[3] All’opposto di tutto ciò, il Trattato di Lisbona ricicla la tesi della sovranità della costituzione per tramite della nozione di “costituzione economica”. In questa architettura inedita, la costituzione economica riveste così, mutatis mutandis, lo stesso ruolo dell’“infrastruttura” nella vulgata marxista, salvo il fatto che nell’ordoliberalismo l’infrastruttura è giuridica anch’essa: è la base a partire da cui scaturiscono tutti i poteri (Commissione, Consiglio ecc.), in quanto questi ultimi hanno tutti la funzione di garantire l’indipendenza dell’“interesse generale” rispetto ai vari “interessi particolari”, e in primo luogo rispetto a quelli dei cittadini organizzati. Contrariamente a quanto affermato da Habermas, dunque, il vero e proprio “vizio di costruzione”, o “tara congenita” dell’Europa, non sta in una presunta “incompiutezza” dell’unione politica, che sarebbe privata dei mezzi per attuare una politica economica comune,[4] ma sta piuttosto nella logica stessa che ha presieduto a questa “unione politica”, realizzatasi attraverso una serie di cessioni di sovranità sulla base di princìpi economici costituzionali. Inoltre, tutte queste cessioni di sovranità non sono state estorte agli stati da altri stati concorrenti, ma, al contrario, sono stati gli stessi stati sovrani a elevare al di sopra di sé una costituzione immutabile che limitava il quadro dentro cui essi potevano condurre le loro politiche pubbliche.

Costruire una cittadinanza europea democratica

Non è sufficiente invocare il principio di sovranità per lottare contro la sovranità della “costituzione economica”. Innanzitutto perché questo principio è esso stesso equivoco. A rigore, la sovranità qualifica un potere assoluto collocato al di sopra delle leggi (ex legibus solutus), sia che si eserciti sul fronte interno, cioè verso i membri di uno Stato, che verso l’esterno, nei rapporti tra stati (cioè è alla base tra l’altro del diritto di guerra). Inoltre, la sovranità può avere come soggetto o il popolo o lo Stato, e le due cose non sono per niente identiche.[5] Quando l’estrema destra nazionalista e xenofoba rivendica la sovranità, intende la sovranità dello Stato sul popolo (uno Stato forte capace di soddisfare un desiderio di autorità). La cosa più inquietante è che perfino nella sinistra più critica c’è chi cede a questa deriva nazionalistica. Denunciare l’“Europa della Germania”, infatti, e dire che il terreno occupato dal Front National in Francia è in fondo lo stesso di quello occupato in Italia da Beppe Grillo e in Grecia da Syriza,[6] non fa che dare adito a questa pericolosa confusione. Anche la campagna “antiamericana” contro il progetto del Transatlantic Free Trade Area (TAFTA) risulta in questo senso molto ambigua. Se è necessario mettere in campo la tematica della sovranità, bisogna farlo nell’intento di contrapporre la sovranità del popolo e quella dello Stato, e non rivendicando il potere assoluto del popolo (il che sarebbe una finzione senza senso), ma reclamando il controllo diretto da parte di ciascun popolo sui propri dirigenti e rappresentanti parlamentari, che hanno organizzato o acconsentito al processo di trasformazione della sovranità statale sopra descritto. Tuttavia, in secondo luogo, bisogna andare al di là della stessa nozione di sovranità, contrapponendo alla sovranità della costituzione una cittadinanza europea democratica. Non è infatti un caso se la pseudo-cittadinanza europea riconosciuta dai trattai non sia, in realtà, altra cosa che un accessorio della cittadinanza statale nazionale. L’unica “cittadinanza” riconosciuta come “comune” a tutti i cittadini europei è quella del consumatore preoccupato del funzionamento del principio della concorrenza (il che spiega lo scarso peso dei diritti sociali in questo scenario).

Dobbiamo affermare che qualunque costituzione economica e qualunque costituzione politica fondata su una tale forma di costituzione sono essenzialmente antidemocratiche. Se ne trarrà una conseguenza: ogni processo che miri a democratizzare le istituzioni europee sulla base della “costituzione” esistente volta le spalle alla democrazia. Questo vale in particolar modo per tutti i progetti di “sovranità europea” che scimmiottano le sovranità nazionali (che si proponga uno Stato Federale o no). È illusorio credere che la cittadinanza europea potrà essere ottriata, elargita da un potere sovrano quale che ne sia la forma. L’imprescindibile atto preliminare di qualunque dibattito sull’architettura europea consiste nel costruire una cittadinanza europea transnazionale attraverso pratiche determinate; cittadinanza definita non da uno statuto ma da una lotta per l’allargamento dei diritti rispetto a quelli goduti nel quadro della sovranità nazionale: diritti di controllo, di iniziativa e di partecipazione. Bisogna guardare le cose come stanno: l’Europa non è mai stata una “casa comune” per i suoi cittadini. Se la si guarda dal punto di vista della cittadinanza europea, essa sembra più che altro un’immensa torre di vetro costruita da un’oligarchia di esperti.

L’Europa comincia a tremare fin nelle sue basi. E noi ci troviamo di fronte a una scelta: ripiegamento nazionalista o rifondazione dell’Europa. È ora di lottare per fare dell’Europa un comune politico. Solo una sinistra autenticamente internazionalista può farsi carico di questa battaglia. A modo suo, la manifestazione nazionale del 17 maggio 2014 a Roma in difesa dei beni comuni ha dato la parola d’ordine per questa sinistra che invochiamo: Commoners of Europe, rise up!»

Traduzione di Riccardo Antoniucci