Armonia Europae, Zbigniew Herbert
Zbigniew Herbert (Leopoli, 1924-Varsavia, 1998) è tra i massimi poeti polacchi del Novecento; è stato anche autore di opere teatrali e saggi dedicati alla cultura e all’arte europea. I testi qui presentati contengono in miniatura alcuni motivi forti della sua poetica, primo fra tutti il ricordo della Leopoli dei kresy, le zone dei confini orientali perdute dopo la Seconda Guerra Mondiale, che hanno dato alla Polonia tanti dei suoi grandi artisti. Leopoli sarà la prima incarnazione del mito herbertiano della città assediata, a cui si aggiungerà poi l’immagine della Varsavia distrutta, o della Polonia intera assediata nel 1981, emblemi di tutti i luoghi inermi colpiti dalla Storia – e non è un caso che De Lillo abbia letto proprio il Rapporto dalla città assediata ricordando le vittime dell’11 settembre a Ground Zero.
Legato alla Polonia dei partigiani dell’Armata Nazionale e dell’insurrezione di Varsavia, Herbert è anche lo scrittore della classicità, l’“iperboreo” a cui Apollo stesso aveva insegnato a suonare la lira, come ha scritto Seamus Heaney nel suo bellissimo ricordo del poeta. Ne “La visione dell’Europa”, la predilezione per i temi antichi viene esplicitamente spiegata come scelta di un codice cifrato per parlare dell’attualità, mettendo in moto «pesanti macchine storiche» per dare voce al dissenso, senza scadere nella pubblicistica esplicita. Raccontandoci il disappunto provato per la lettura riduttiva dei suoi testi pieni di passione civile, che all’estero erano accolti come prodotti di una serena mente erudita, Herbert non tocca solo la questione delle molteplici modalità di ricezione del testo letterario, ma anche quella del potere perverso delle frontiere.
Se esiste un versante luminoso dell’opera herbertiana, è quello nato dai viaggi, che erano spedizioni erudite verso i capolavori, ma anche vagabondaggi senza una meta apparente, per conoscere la terra con i cinque sensi e scoprire «la futilità della lingua la potenza del gesto», mentre la patria sembra piccola come «una culla una barchetta». Più che mai attuali sono le parole di Herbert quando ci ricorda il valore di un’Europa multiculturale che vive oltre la divisione delle frontiere, rappresentata in questi testi dalla sua Leopoli dell’anteguerra, dall’artista di Holy Iona e da quanti compiono piccoli gesti che perpetuano il simbolismo dell’unione, il dialogo di luci tra le isole della terra.
Francesca Fornari
La Visione dell’Europa
La convinzione che i poeti abbiano visioni profetiche e valutino il futuro meglio degli altri fa loro onore. Indipendentemente dalla verità o meno di questa convinzione, essa andrebbe confermata per fare i buoni interessi della categoria. Il ruolo dello scrittore nel mondo contemporaneo è fin troppo confuso, e appaiono comprensibili tutti i tentativi di accentuarlo, di sottolinearlo e di ingigantirlo.
Radio Hessen mi ha contattato perché scrivessi le mie considerazioni sul tema della visione dell’Europa. Potrei elencare tutta una lista di argomenti e motivi per i quali considero impossibile svolgere un compito simile. Non mi sono mai occupato di pubblicistica, possiedo una quantità insufficiente di informazioni per essere in grado di compiere una giusta valutazione della realtà sociopolitica e trarne conclusioni dotate di un qualche significato. Il momento storico nel quale ci troviamo è particolarmente delicato, le soluzioni e le decisioni che verranno prese tra poco potranno annullare molte speculazioni. E inoltre – ed è questa la cosa più importante – io non ho una sola visione dell’Europa, ma almeno due, e del tutto contrapposte: l’una arcadica e l’altra catastrofica. Non si tratta di una metafora poetica, ma di una situazione molto lontana dal benessere interiore.
Nel mio Paese abita uno scrittore affascinato dall’Europa, dalla sua storia e dalla sua cultura. In alcuni periodi, questa fascinazione era pericolosa. Ha scritto molte opere dedicate alla tradizione giudaico-cristiana. Se pubblicati a Tubinga o a Poitiers, questi stessi lavori lo qualificherebbero come un uomo pacato, che guarda alla vita da una certa distanza e si impegna di malavoglia nelle scottanti dispute dell’attualità. E sarebbe davvero difficile per lui spiegare ai colleghi occidentali che scrivendo sull’invasione dell’isola amica Samos da parte degli ateniesi, sui processi dei templari o degli albigesi, aveva in mente gli eventi della contemporaneità. Lui metteva in moto quelle pesanti macchine storiche, si serviva dell’allegoria e indossava una maschera perché non poteva parlare diversamente, e anzi non voleva parlare diversamente. La lotta con il tal presidente o segretario conduce la letteratura nell’inferno della pubblicistica.
Quando i suoi manoscritti finivano in Occidente, venivano in genere giudicati favorevolmente come opere che dimostravano l’erudizione dell’autore, la sua cultura e i pregi del suo stile. Per lui questi erano complimenti penosi. Era come se tutta la passione e la rivolta si fossero volatilizzate di colpo solo perché avevano oltrepassato la frontiera.
Ho usato la parola “frontiera”. Questo significa che parlerò di due Europe. Ma prima che io tenti di tracciare la linea di demarcazione, cercherò di segnare sulla cartina un punto che per me è essenziale.
Vorrei però avvertire che quel che dirò sarà vergognosamente soggettivo. Parlerò di me stesso e delle mie esperienze. Non prometto nient’altro che un elenco di dubbi e di inquietudini, mi sono estranee la certezza arrogante dei politici dogmatici e le visioni cupe dei futurologi.
Il Luogo. Sono nato in una città che si trova su un grande spartiacque, a metà strada tra il Mar Baltico e il Mar Nero. Un singolare luogo della terra. Lì ho vissuto un’infanzia felice e la prima giovinezza. Ho abbandonato quel luogo un quarto di secolo fa, per non farvi mai più ritorno. È stato un exodus più che una partenza spirituale, e anche se mi sono conciliato con la necessità della Storia, ricordo tuttavia bene la mia città nativa e soprattutto la lezione che mi ha dato. La ricorderò per tutta la vita. Ha dato forma alla mia prima visione dell’Europa.
Quella città della mia infanzia si trovava al crocevia delle strade che vanno da Oriente a Occidente e da Sud a Nord. Le mura difensive medievali, la cattedrale gotica, i meravigliosi edifici rinascimentali sulla piazza e le chiese barocche creavano un’unità sorprendentemente armonica, che colpiva tutti i visitatori. Erano molti e spesso rimanevano qui per sempre. E così nel corso di lunghi secoli è sorto un mosaico di culture e di nazionalità.
Quando molti anni dopo viaggiavo nell’Europa occidentale, cercavo istintivamente quelle città e quei paesi nei quali si poteva osservare la presenza di molti strati culturali, apparentemente contrastanti tra loro. Mi attraeva la Sicilia con le tracce di greci, arabi e normanni: intuivo difatti che ciò che è importante, non solo nell’arte, ma anche nella vita, nasce nello scontro pacifico di pensieri e di idee. E per questo mi è sempre stata estranea la ricerca, artificiale e spesso usata per sporchi scopi politici, di quel che chiamiamo il carattere nazionale, tutti quei folli tentativi di stabilire quanto è “puramente romanico”, “originariamente germanico” o “autenticamente slavo”.
I ricordi ovviamente colorano la realtà e forse la mia città natale era in realtà meno bella di quanto non mi sembri. Lì non è nato nessuno stile nuovo, non vi creavano Rembrandt o Leonardo, ma gli studiosi si interrogavano su una sfumatura originale, su un accento introvabile in nessun altro luogo. Gli storici dell’arte ritenevano che esso derivasse da una felice unione, dalla simbiosi degli elementi del luogo con quelli di Bisanzio, dell’Oriente e dell’Europa occidentale. Durante i secoli, nella mia città, sono stati attivi artisti italiani, olandesi, tedeschi, armeni, polacchi e russi.
Questo certamente non era frutto di una coincidenza felice, ma aveva richiesto la creazione di determinate condizioni politico-sociali, e anche spirituali, e di una grande tolleranza, di ospitalità verso gli stranieri, della mancanza di preconcetti e pregiudizi religiosi o razziali. E così la mia prima Europa, a cui sono legato ancora oggi, era un grande bazar di lingue, di costumi e culture.
Una conseguenza trascurata della Seconda Guerra Mondiale è degna di considerazione: la nascita di stati etnicamente puri. Le frontiere politiche coincidono con i confini tra le nazionalità, come forse mai è accaduto prima nella Storia. Si può certo affermare che lo sviluppo dei beni materiali e spirituali, il turismo di massa, spingono nella direzione opposta, a me tuttavia sembra che coloro ai quali è vicina l’idea di un’unificazione dell’Europa dovrebbero riflettere sulla questione. Dal punto di vista politico, uno Stato etnicamente puro sarà forse un ideale, ma io dubito che sia un ideale nel mondo della cultura.
Il Limes. Temo che il concetto di “Mitteleuropea” sia superato, e che non abbia alcun significato per i giovani. Oggi fa parte dei nomi che non risvegliano associazioni particolari, e non fanno battere il cuore come i nomi Troia o Pannonia.
La nozione di Europa è sempre stata incerta e imprecisa per il semplice motivo che non è il nome di un continente tutto circondato dal mare, precisamente chiuso nelle sue frontiere. E tuttavia suscita certe associazioni e, oso sperare, accelera il battito del cuore.
Il testo, pubblicato la prima volta sulla rivista “Zeszyty Literackie”, 2008, 3, pp. 5-7, è la trascrizione, risalente al 1973, di un intervento di Herbert per Hessischer Rundfunk a Francoforte sul Meno.
Holy Iona, ovvero una cartolina dal viaggio
Non so perché, ma da qualche anno mi appare l’immagine di un’isola. Le isole non fanno parte del paesaggio della mia infanzia. Sono nato nell’Europa centrale, a metà strada tra il Baltico e il Mar Nero. Il panorama della mia giovinezza sono i dintorni di Leopoli: valli strette e colline miti ricoperte di pini sui quali c’è la più bella fioritura della prima neve friabile. Il mare lì era qualcosa di inimmaginabile, e le isole avevano il sapore delle fiabe.
Era tardo autunno nel piccolo porto scozzese di Oban, quando decisi di andare su una delle Isole Ebridi. La meta del mio viaggio era Holy Iona. L’aggettivo accanto al nome significa “santa”, perché nel primo Medioevo san Colombano cominciò da questo lembo di terra la sua evangelizzazione dei celti. Secondo testimonianze degne di fede, approdò sulla spiaggia sabbiosa in compagnia di un paio di frati. Fu una delle missioni religiose più pacifiche, non così colorata di sangue e fuoco come le Crociate, e in compenso più spirituale. La leggenda parla di lunghe conversazioni notturne tra san Colombano e i druidi celti.
Era tardi, la corsa regolare della nave era stata sospesa da qualche settimana, e solo grazie alla straordinaria gentilezza dei pescatori scozzesi arrivai sull’isola di Mull. Un autobus vuoto mi portò alla sua estremità opposta, nel piccolo borgo (se è consentito definire così qualche casetta sparsa) che si trova proprio di fronte a Holy Iona. La padrona della casa dove mi fermai telefonò a notte fonda per trovare un pescatore disposto a venire con me.
Un mattino freddo, umido e grigio. Sono vicino al jetty, che è un semplice sentiero di asfalto che entra nel mare. L’oceano è in tempesta, le onde alte si infrangono sulle rocce della riva scoscesa. Dalla nebbia emerge all’improvviso una piccola barchetta da pesca che naviga verso di me. È stato come dare la mano a un sogno.
Su Holy Iona ci sono un convento e una chiesa, uno dei più bei complessi romanici del Nord. Protetto a ovest dalle alture che lo circondano, e tuttavia pervaso dalla brezza salata, massiccio, costruito con pietra arenaria di tonalità rossa. I muri sono spessi, l’insieme degli edifici colpisce per l’uniformità dello stile e dà l’impressione di una fortezza costruita a difesa dai venti. Lo sguardo si deve abituare per riuscire a riconoscere, nell’interno buio della chiesa, i capitelli meravigliosamente scolpiti e i dettagli architettonici con i fregi cancellati e di un colore turchese, come se fossero stati estratti dal fondo del mare.
All’interno del convento, il chiostro. Il chiostro italiano è sempre un paradiso racchiuso in un’architettura di arcate, un paradiso con la fontana, pieno di fiori colorati e di cespugli. Qui, c’è solo un’erba dal colore intenso, e al centro una statua in stile molto moderno, che però non turba l’atmosfera, e che rappresenta la Madonna. Sulla statua un’iscrizione in francese, per rendere il tutto ancora più insolito.
Questo è il testo dell’iscrizione: «Leo Lipschitz, ebreo fedele alla religione dei suoi avi, ha scolpito questa Madonna perché gli uomini si comprendano l’un l’altro e lo spirito regni sulla terra».
Allora ho capito che io viaggio in Europa per estrarre dalla storia umana lunga e drammatica le tracce, i segni del legame che si è perduto. E per questo la colonna romanica di Tyniec vicino a Cracovia, il timpano della chiesa di santa Petronilla vicino a Vienna e i bassorilievi nella cattedrale di san Trofimo di Arles non sono stati per me solo una fonte di esperienza estetica, ma mi hanno sempre dato la consapevolezza che esiste una patria più grande della patria del proprio Paese. E sono grato all’artista ebreo che, pur avendo a portata di mano tante parole di odio, è riuscito a dire una parola di conciliazione. E mi sembra che questa piccola cartolina dal mio viaggio sia una cartolina con un messaggio morale.
Al porto, dove mi attendeva il pescatore paziente, si arrivava passando per il cimitero. Nell’erba rossa giacciono le pietre tombali dei signori scozzesi. I cavalieri nei gusci delle corazze navigano attraverso le foglie marce e l’acqua salata, verso la loro lontana eternità. I loro lineamenti sono illeggibili. Volti di insetti, piatti e simili. Sono tornato sull’isola di Mull. Dopo cena la padrona di casa mi ha chiesto di mettere una piccola lampada alla finestra che dà su Holy Iona. Questa è l’usanza. Di notte le luci delle due isole parlano tra di loro.
Non sappiamo che cosa ci porterà il futuro e quanto a lungo durerà la lacerazione del mondo. Ma finché le luci di questa terra si saluteranno almeno una notte all’anno, non tutta la speranza è perduta.
Traduzione e cura di Francesca Fornari
Il testo è stato pubblicato per la prima volta in Polonia su Zeszyty Literackie 2002, n 1/77, pagg. 51-52. Secondo le informazioni desunte dall’epistolario del poeta, era stato scritto su richiesta della stazione radio WDR (Westdeutscher Rundfunk) di Colonia, nel 1966, e inserito poi nella sola versione tedesca della sua raccolta di saggi “Il barbaro nel giardino” (1969). Holy Iona e la padrona di casa Miss Helen vengono ricordati nella “Preghiera del Signor Cogito viaggiatore”.
Zbigniew Herbert (Leopoli, 1924-Varsavia, 1998). Tra i massimi poeti polacchi del Novecento, è stato anche autore di opere teatrali e saggi dedicati alla cultura e all’arte europea. I testi qui presentati contengono in miniatura alcuni motivi forti della sua poetica, primo fra tutti il ricordo della Leopoli dei kresy, le zone dei confini orientali perdute dopo la Seconda Guerra Mondiale, che hanno dato alla Polonia tanti dei suoi grandi artisti. Leopoli sarà la prima incarnazione del mito herbertiano della città assediata, a cui si aggiungerà poi l’immagine della Varsavia distrutta, o della Polonia intera assediata nel 1981, emblemi di tutti i luoghi inermi colpiti dalla Storia – e non è un caso che De Lillo abbia letto proprio il Rapporto dalla città assediata ricordando le vittime dell’11 settembre a Ground Zero. Legato alla Polonia dei partigiani dell’Armata Nazionale e dell’insurrezione di Varsavia, Herbert è anche lo scrittore della classicità, l’“iperboreo” a cui Apollo stesso aveva insegnato a suonare la lira, come ha scritto Seamus Heaney nel suo bellissimo ricordo del poeta. Ne “La visione dell’Europa”, la predilezione per i temi antichi viene esplicitamente spiegata come scelta di un codice cifrato per parlare dell’attualità, mettendo in moto «pesanti macchine storiche» per dare voce al dissenso, senza scadere nella pubblicistica esplicita. Raccontandoci il disappunto provato per la lettura riduttiva dei suoi testi pieni di passione civile, che all’estero erano accolti come prodotti di una serena mente erudita, Herbert non tocca solo la questione delle molteplici modalità di ricezione del testo letterario, ma anche quella del potere perverso delle frontiere.
Se esiste un versante luminoso dell’opera herbertiana, è quello nato dai viaggi, che erano spedizioni erudite verso i capolavori, ma anche vagabondaggi senza una meta apparente, per conoscere la terra con i cinque sensi e scoprire «la futilità della lingua la potenza del gesto», mentre la patria sembra piccola come «una culla una barchetta». Più che mai attuali sono le parole di Herbert quando ci ricorda il valore di un’Europa multiculturale che vive oltre la divisione delle frontiere, rappresentata in questi testi dalla sua Leopoli dell’anteguerra, dall’artista di Holy Iona e da quanti compiono piccoli gesti che perpetuano il simbolismo dell’unione, il dialogo di luci tra le isole della terra.