Valori di scarto, Ardian Vehbiu
È doveroso per noi ripubblicare per intero, riveduto e corretto dall’Autore Ardian Vehbiu, il testo che segue poiché conteneva, nel paragrafo conclusivo (qui evidenziato in azzurro) della versione cartacea della rivista, alcuni gravi errori prodotti in fase redazionale. Le nostre scuse vanno all’Autore, ai lettori e a Ismail Kadare.
Due culture che fanno commercio tra loro oppure che si scambiano oggetti e idee si aspettano, a causa della condizione paritaria che assumono durante lo scambio, che l’oggetto di scambio conservi più o meno la stessa funzione o valore durante il passaggio da una cultura all’altra.
Se produco profumo e te lo vendo, mi aspetto che tu lo utilizzi per spruzzarlo e non per allontanare gli insetti o per accendere il fuoco. Se produci farina e me la vendi, ti aspetti che io faccia il pane e non il cemento.
Il mercato e i valori culturali
Quando due culture non sono paragonabili tra loro e non comunicano bene, gli effetti dello scambio non sono prevedibili, dato che il valore di utilizzo degli oggetti scambiati è una funzione della cultura di appartenenza.
Per esempio, una cultura potrebbe utilizzare le candele per la loro funzione simbolica in chiesa, un’altra per illuminare l’ambiente. O ancora, una potrebbe utilizzare il grasso di maiale in cucina, mentre un’altra per lubrificare macchinari. E così via.
Il mercato richiede non solo parità di valore nello scambio, espresso in genere attraverso la moneta, ma anche una serie di valori culturali espressi attraverso l’utilizzo della merce scambiata.
L’esempio dell’Albania autarchica degli anni 1960-’80 conferma tutto ciò. I prodotti albanesi di maggior consumo (come il sapone per i panni) non avrebbero potuto trovare collocazione sul mercato occidentale (anche se oggi, quel sapone, prodotto nei frantoi, potrebbe essere venduto nei negozi biologici). Un paio di scarpe albanesi difficilmente avrebbe potuto attirare l’attenzione in Italia oppure in Danimarca. Un televisore uscito da una fabbrica di Durazzo non sarebbe mai stato venduto in Europa. La merce era talmente scadente che non avrebbe potuto essere venduta nei mercati raffinati ed esigenti dell’Europa occidentale. Per questa ragione, solo una parte dell’industria albanese era specializzata nella produzione per l’export o per le richieste del mondo “lontano”.
Ma neanche le merci di maggior consumo, prodotte in Occidente, potevano circolare liberamente e normalmente nel mercato albanese, così affamato di roba da scambiare o da vendere. La scarsità degli oggetti importati rendeva il loro valore inevitabilmente alto, tanto che essi assumevano lo statuto di feticci, capaci di determinare o di regolare i rapporti con la realtà “lontana”.
La difficoltà di comunicazione, la diseguaglianza e le differenze fondamentali tra sistemi culturali, fanno sì che il valore degli oggetti scambiati si trasformi assumendo un altro significato, in genere simbolico.
Un modello incredibilmente funzionale dei rapporti materiali e simbolici tra l’Albania e l’Occidente lo offre l’inizio del romanzo fantascientifico russo Picnic sul ciglio della strada di Arkadij e Boris Strugackij, pubblicato per la prima volta in Russia nel 1972 (tr. it., Marcos Y Marcos, 2003).
La premessa del romanzo è allo stesso tempo semplice e assurda: «Anomalie fisiche inspiegabili e oggetti dalle qualità sorprendenti iniziano a comparire in sei diversi luoghi del pianeta Terra, le Zone. Trent’anni dopo l’evento, viene fondato l’Istituto Internazionale delle Culture Extraterrestri a Marmont, immaginaria cittadina industriale, una delle località colpite da questi fenomeni. L’obiettivo è quello di recuperare dalla Zona i manufatti abbandonati dagli alieni, studiarli e cercare di appropriarsi della loro tecnologia».
Ecco come spiega la visita extraterrestre uno dei personaggi del romanzo: «Immaginate un bosco, un prato, un gruppo di giovani che arrivano in macchina, cesti con cibo e bevande, radiolina e macchina fotografica. Accendono il fuoco, piazzano la tenda, ascoltano la musica, trascorrono la notte e l’indomani si allontanano. Gli animali e gli insetti che avevano osservato terrorizzati i visitatori adesso escono fuori dal loro rifugio e vedono, increduli, candele, cicche di sigaretta, lampadine bruciate e una chiave inglese dimenticata sul prato. Ma anche i soliti rifiuti, come una mela gettata a terra, carta, lattine, bottiglie, un fazzoletto, un coltellaccio, fogli di giornale e addirittura fiori appassiti raccolti nel praticello accanto».
L’idea, troppo offensiva per poter essere accettata subito, è che i visitatori extraterrestri potrebbero non aver tenuto conto degli esseri umani e della loro civiltà, allo stesso modo di come facciamo noi con le formiche durante un picnic. Indipendente dal loro valore inestimabile per l’umanità, gli oggetti abbandonati nelle Zone non sono altro che rifiuti.
Zona in latino è il punto di incontro tra due civiltà che non riescono a comunicare tra loro. Nel caso in esame, da una parte, vi sono gli alieni che vanno e vengono per ragioni inspiegabili, lasciandosi dietro oggetti e immagini per noi incomprensibili. Dall’altra, vi sono gli esseri umani che tentano invano di spiegare questa esperienza nel loro mondo, anzi nel loro universo. Si impegnano a interpretare o a decifrare le intenzioni e l’utilizzo di oggetti rimasti nella Zona che provocano a volte conseguenze letali.
Il fatto che questi artefatti siano semplicemente oggetti abbandonati o rifiuti di un evento non interpretabile rende la comunicazione ancora più problematica. Forse perché gli uomini che li utilizzano non saranno mai sicuri che il valore del nuovo utilizzo abbia qualche collegamento con il valore originale dell’oggetto stesso.
Il romanzo suggerisce l’immagine dell’Altro che comunica con te, o semplicemente comunica attraverso i rifiuti della sua civiltà. Ciò vale anche come metafora del contatto tra due civiltà che non si comprendono. Durante il contatto, la comunicazione avviene attraverso la riappropriazione degli oggetti e la sostituzione del valore di utilizzo o del valore simbolico dell’oggetto stesso.
Cosi, durante gli anni di totale isolamento economico dell’Albania, un insieme di oggetti usa e getta (in italiano nel testo), provenienti dall’Occidente (come la penna Bic, gli accendini, le bottiglie di plastica delle bevande rinfrescanti, le buste di plastica), ha assunto un’altra funzione. Si è capito che nella penna si cambiava la ricarica interna, all’accendino si praticava un foro sul fondo per ricaricare il gas, la bottiglia di plastica poteva essere riutilizzata come brocca per l’acqua, la confezione del sapone come profumo per gli armadi.
Comunicare con i rifiuti
In Occidente, il mercato di largo consumo produce anche molti rifiuti: imballaggi, pile, indumenti di seconda mano, romanzi tascabili, programmi televisivi, talk show, nozioni e pratiche dell’escapismo. Prodotti del genere, una volta superato il confine ed entrati nell’ecosistema albanese, erano destinati ad assumere il significato di oggetti utilizzati, come nel romanzo, in maniera diversa da quella per cui erano stati prodotti.
Direi che quando i due sistemi economici non comunicavano – il nostro e quello occidentale –, tranne che in alcuni casi e nelle modalità sopra descritte, ogni oggetto di consumo arrivato in Albania era considerato un rifiuto. La nostra lavatrice Candy, però, che era stata comperata al mercato regolare negli anni Settanta e che ha resistito in casa dei miei genitori fino agli anni Novanta, era stata riparata così spesso da essere paragonata alla nave di Teseo nel famoso paradosso – solo il rivestimento di metallo e il cestello erano rimasti quelli originali.
Quando classifico oggetti del genere come rifiuti, non faccio riferimento alle loro qualità o alla loro funzione, ma al fatto che, una volta attraversato il confine, staccandosi dal sistema di origine, si trasformavano in oggetti con funzioni diverse o ridotte o, in altre parole, senza valore d’uso o di utilizzo bieco.
Un paio di pantaloni da donna comprati in Italia appartenevano a un certo stile, a un certo mercato, a una certa moda o a certi gusti del consumatore italiano. In Albania quegli stessi pantaloni sarebbero considerati “stranieri”, un prodotto di qualità, visti il colore e il materiale particolare.
Mettiamo il caso di un romanzo “giallo” italiano, regalato da un camionista albanese a sua figlia che prende lezioni private di italiano: in Italia verrebbe letto durante un viaggio e poi gettato via; in Albania farebbe il giro di parecchi lettori, come se fosse un romanzo di Kafka o di Dostoevskij. O come se fosse un manuale di occidentalizzazione o un oggetto paragonabile a una bottiglia di champagne o a un sigaro cubano.
Un album dei Beatles come Revolver, arrivato casualmente alla dogana di Rinas grazie a un marxista-leninista o a un nostalgico della nomenklatura, passato di mano in mano tra le élite cittadine, veniva considerato un oggetto unico e perfetto, ma in realtà assai lontano dal suo ambiente naturale, per esempio dagli altri album dei Beatles, o dal contenuto stesso delle canzoni, (l’uso di droga, il contatto con il misticismo indiano ecc.).
Quindi, se considero rifiuti tali oggetti, faccio riferimento prima di tutto alla denaturalizzazione provocata dal distacco dal sistema che li ha prodotti. Tale distacco risulta fatale dal punto di vista della loro funzione originale, così come lo è per una formica l’allontanamento dalla sua colonia. Facciamo l’esempio di una lampadina elettrica che venga staccata dal suo lume: a quel punto, la lampadina può essere apprezzata per la sua forma armonica, per la sua trasparenza o usata addirittura per specchiarsi. Le persone che possiedono le lampadine potrebbero avere un potere politico da usare contro coloro che le lampadine non le possiedono. Ma se la tua civiltà non conosce l’elettricità, la lampadina non può illuminarla.
La consapevolezza che la comunicazione con l’Occidente si svolgesse a livelli bassissimi, quella dei rifiuti, ha preso forma durante gli anni Novanta. Inaspettatamente, la metafora ha coinciso con alcuni sviluppi positivi nella realtà. La società civile in Albania ha lanciato l’allarme per l’importazione dei rifiuti dall’Italia e lo smaltimento dei rifiuti tossici dall’Europa. Ha dato vita a dibattiti in tv sulla qualità degli alimenti o sulla data di scadenza delle medicine importate, su gran parte del mercato dell’abbigliamento che era costituito dall’usato (le “bancarelle dei Gabel”),1 per non parlare dei dibattiti sugli aiuti delle associazioni umanitarie e sugli autobus urbani. L’opinione pubblica ha iniziato così a credere che l’Occidente stesse scaricando in Albania rifiuti di ogni genere, anche se non consapevolmente.
A questa percezione, in linea di massima un’illusione, si è contrapposta un’altra percezione, a volte alimentata dai media occidentali, e cioè che, nei grandi esodi dell’inizio degli anni Novanta e nella successiva emigrazione, anche l’Albania iniziasse a esportare i suoi rifiuti oltre confine. Criminali, ladri, prostitute, trafficanti di droga segnano la terra d’Occidente come fa il gatto vagabondo quando marca il territorio con la sua pipì maleodorante.
Ma esiste un altro modo possibile di leggere l’esodo dei profughi sbarcati in Italia: quello della loro integrazione presso le strutture pubbliche attraverso le associazioni di volontariato e l’assistenza sociale che davano aiuto ai richiedenti asilo politico, alle persone rimaste vittime di violenza, agli invalidi di guerra, ai pensionati, ai bisognosi, ai più deboli e ai malati. Tali sistemi di accoglienza e di pronto intervento nei paesi ospitanti come l’Italia sono consolidati ormai da tempo.
In tale contesto possiamo finalmente spiegare la diffusione virale di una dichiarazione, peraltro apocrifa, di Ismail Kadare; il quale avrebbe chiamato “escrementi della nazione” i profughi della crisi delle ambasciate, del luglio 1990. Il successo di questo meme e la sua longevità, al di là dell’associazione esclusiva con l’autorità di Kadare e il fatto ironico che lo stesso illustre scrittore si sarebbe unito a tale escremento pochi mesi dopo, si riferisce innanzi tutto alla virtù compensatoria o catartica della metafora coprologica.
1 Le “bancarelle” dei rom, che in Albania vengono chiamati con il termine “Gabel”.
Traduzione di Aldo Doda
Il testo è tratto dal volume Sende që nxirrte deti, Tirana, Dudaj, 2013. Un ringraziamento all’autore per la gentile concessione.
Ardian Vehbiu, scrittore albanese, è autore di numerosi saggi e articoli per la stampa e il web. Laureato in lettere all’Università di Tirana, è stato ricercatore all’Accademia delle Scienze albanese e docente al Dipartimento di Italianistica dell’Università di Tirana. Ha insegnato lingua albanese all’Università degli Studi l’Orientale di Napoli. Dal 1996 vive a New York, da dove collabora con i media albanesi, scrivendo regolarmente un editoriale sul quotidiano albanese Shekulli e pubblicando una serie di libri su tematiche culturali e sociali. Di recente sono usciti: Kundër purismi: polemikë, Dudaj, 2012; Gjashtëdhjetë e gjashtë rrëfimet e Maks Gjerazit, K&B, 2011; Shqipja totalitare, Çabej, 2008; Kulla e Sahatit, K&B, 2003. In italiano è stato pubblicato La scoperta dell’Albania: gli albanesi secondo i mass media (Paoline, 1996).