Terroristi all’assalto delle città globali
Hartmut Böhme
Germania 1932: le esperienze dell’americanismo e del fordismo erano state assimilate. Erano stati oggetto di indagine i nuovi, rapidi ritmi e la massificazione delle città di milioni di abitanti, così come il proletariato industriale e la nuova stratificazione sociale dei ceti impiegatizi. Il funzionalismo aveva iniziato la sua marcia trionfale in tutti i campi della modernità, ivi compresi l’architettura e il design. Nella metropoli berlinese era stato per la prima volta ripensato il modo di percepire le big cities. Si erano avvertite, con il “Venerdì nero”, le conseguenze sull’economia globalizzata e i contraccolpi sulla borsa.
Proprio in quell’anno, lo scrittore e scienziato austriaco Robert Musil metteva a fuoco l’ossessione sociale di una specie di città superamericana, dove tutti corrono o s’arrestano col cronometro in mano:
Aria e terra costituiscono un formicaio, attraversato dai vari piani delle strade di comunicazione. Treni aerei, treni sulla terra, treni sotto terra, posta pneumatica; catene di automobili sfrecciano orizzontalmente, ascensori velocissimi pompano in senso verticale masse di uomini dall’uno all’altro piano di traffico; nei punti di congiunzione si salta da un mezzo di trasporto all’altro, e il loro ritmo, che tra due velocità lanciate e rombanti ha una pausa, una sincope, una piccola fessura di venti secondi, succhia e inghiotte senza considerazione la gente, che negli intervalli di quel ritmo universale riesce appena a scambiare in fretta due parole. Domande e risposte ingranano come i pezzi di una macchina, ogni individuo ha soltanto compiti precisi, le professioni sono raggruppate in luoghi determinati, si mangia mentre si è in moto, i divertimenti sono radunati in altre zone della città, e in altre ancora sorgono le torri che contengono moglie, famiglia, grammofono e anima. Tensione e distensione, attività e amore, sono ben divisi nel tempo e misurati secondo esaurienti ricerche di laboratorio. Se svolgendo una qualsiasi funzione si incontrano delle difficoltà, si desiste subito, perché si trova un’altra cosa, oppure un metodo migliore, o ancora vi sarà un altro che si incaricherà di scoprire la strada giusta; e questo non porta danno, perché il massimo sperpero delle forze comuni è causato dalla presunzione di compiere la propria opera sino in fondo. In una collettività ogni strada porta a una meta buona. La meta è posta a breve distanza; ma anche la vita è breve, e così si ottiene un massimo di buoni successi; di più non occorre all’uomo per essere felice, perché il successo conseguito foggia l’anima, mentre quello a cui si aspira senza ottenerlo la storce soltanto; per essere felici non ha importanza lo scopo prefisso, ma solo il fatto di raggiungerlo. E inoltre la zoologia insegna che da una somma di individui limitati può benissimo risultare un insieme geniale.1
Il trionfo del fordismo nella satira di Musil
Quella che Musil, nella sua satira dissolvente, configura come la quintessenza della modernità, è la città capitale differenziata per funzioni, quale, negli anni Venti, si metteva in discussione con una parola cruciale, “americanismo”; è però anche l’evoluzione che ha contrassegnato i centri urbani sino agli anni Settanta. Le parole chiave che la connotano sono: l’enorme crescita in estensione delle città prodotta dall’esodo dalla campagna, dall’incremento demografico e dalla deregionalizzazione; la dilatazione nello spazio non solo orizzontale, ma anche verticale; la separazione spaziale della produzione, dei servizi, dei divertimenti, della cultura; la temporalità e la velocità contrapposte ai cauti ritmi operanti negli spazi agrari; la riorganizzazione della città modulata sugli imperativi del traffico; il predominio della macchina alla stregua di un modello che governa la stessa comunicazione tra gli esseri umani; la città, in definitiva, dipendente e scandita dalle medesime leggi che regolano il funzionamento del sistema produttivo. In una parola, la marcia trionfale del fordismo con i suoi principi di parcellizzazione del lavoro, di automazione e di razionalizzazione. Principi cui non solo è informata la produzione, ma che, altresì, si compenetrano in tutti i settori della società. La città moderna appare a Musil come un gigantesco macchinario. A costituirne il centro non sono le antiche piazze e i mercati, ma i raccordi del traffico.
In tutto ciò si riflette, come già poteva osservare Musil negli anni Venti, l’avanzata delle scienze del management. Una strategia, il cui effetto è quello di annullare qualsiasi fondamentale differenza tra uomini, apparati, materiali, cose, processi, azioni, motivi, fini. Il tutto viene così concettualizzato quale “comunità di forze compattate”, come sistema di energia che correla inorganico e organico, umano e non umano. Gli individui svaniscono nel processo produttivo della società. I tratti del privato sono equiformati ad elementi del flusso dinamico generale. L’individuo, se inteso come persona, o non è funzionale o è una fiche sostituibile. La vita e la felicità consistono nell’uniformarsi senza scosse alla corrente di energia. Il corpo sociale viene scisso nei segmenti dei diversi ruoli e nei settori di funzioni locali allo scopo di conseguire la scomposizione per comparti funzionali. La fisionomia cittadina risulta dominata da questa topografica differenziazione delle funzioni che accoglie, assieme alle nuove, tutte le vecchie differenze, le sedimenta localizzandole e le inaridisce, appiattendole nell’ottica del traffico e della comunicazione: qui il pubblico, là il privato; qui il lavoro, là il tempo libero; qui la famiglia, là i divertimenti; qui la produzione, là la riproduzione; qui la fabbrica, là i servizi. Tutto il contrario, insomma, dell’ostinata autoconservazione culturale di province e regioni. Nel sistema l’uomo è un “uomo senza qualità”, il che vuol dire con ognuna delle qualità che, di volta in volta, ci si aspetta vengano da lui manifestate in un segmento del sistema con il fatto, tuttavia, che queste “qualità” non risultano più integrate in una “identità personale”.
La dominanza di sistema, struttura e funzione, di dinamismo e di energia spiega, tra l’altro, perché la “felicità” venga identificata con il “massimo del successo”. Un massimo, questo, che costituisce un fine evolutivo transpersonale del sistema non orientato a un senso e a un significato, ma unicamente inteso ad ottimizzare la propria riproduzione. L’ironica considerazione di Musil, che ci dice come la zoologia, solo apparentemente estranea alla città, insegni la cruda verità di come da una massa di individui dimidiati possa risultare un insieme geniale, coglie la quintessenza della modernizzazione. Si allude qui alla concezione darwiniana di sistema non meno che alla sociologia delle masse, al primato del tutto sulle parti, come alla marcia trionfale delle tecniche del sistema. Nella immagine musiliana della megalopoli non soltanto viene dissolto l’individuo, ma viene strappata dai suoi confini la stessa natura che diventa tanto più decisamente oggetto di appropriazione, quanto più è finalizzata a incrementare il movimento fine a se stesso e la manipolazione tecnica. I regionalismi culturali, su cui si fondavano le società tradizionali e premoderne, si sono risolti in un insieme omogeneizzato di spazio ed energia.
L’omologazione della società alla megalopoli
La fantasia della “città superamericana” riflette l’omologazione della società alla megalopoli. La vita moderna è la vita della megalopoli. Le regioni e le tradizioni culturali sono assorbite dagli spazi funzionali dell’economia e della tecnica. Al “locale” e allo “storico” subentra la globalizzazione che, in una dilatazione senza storia, viene costruita per il tramite della tecnica, del traffico, della telecomunicazione e dell’economia. Quel che è storicamente eterogeneo e culturalmente eterotopo viene distrutto dall’insaziabile fame di spazio e dalla intima segregazione della città. L’atomizzazione delle attività umane e in tal modo la tendenza alla dissoluzione del sociale, della storia e del “regionale” porta, a parere di Musil, al dominio dell’astratto sul concreto.
Il fatto che Musil parli di “superamericano” mostra che questo tipo di città è certamente una precisa invenzione americana, ma tale però da andare ben al di là dell’America per diventare il modello, con ciò stesso globale, dell’evoluzione della modernità. Senza con questo voler mettere in questione la peculiarità dello sviluppo urbano in Europa, possiamo tuttavia affermare che la ricostruzione delle città tedesche bombardate, così come il risanamento e l’ampliamento delle città europee, sono andati ben al di là del modello di disgregazione e di dispersione nello spazio focalizzato da Musil. Antiche città, contrassegnate da densità, copresenza, sincronicità, coincidenza tra uomini e funzioni, sono state soggette a un modello di sistema decontestualizzato.
Quanto è nato, dopo il 1970, nelle concezioni urbanistiche – la città postmoderna, la riestetizzazione urbana, la collage city, la città frattale, la riscoperta della regionalità e della storicità, la valorizzazione della cultura urbana e del sociale urbano, le animazioni dell’identità di quartiere, le città riguardate come testi suscettibili di un’interpretazione culturale, i tentativi di dar vita a nuove forme di collusione, a molti livelli, tra funzioni e cultura, l’accentuazione della differenza in contrapposizione all’omogeneità, la rivalutazione ora del centro, ora della periferia, ora della city, ora del suburbio, oggetto delle nuove teorie formulate in architettura e in urbanistica; la riscoperta della natura nella città, la scoperta dell’ecologia urbana, così come l’aspirazione contraria a circoscrivere la campagna rispetto alla città, il desiderio di sostituire alla dilatazione degli spazi l’addensamento come qualità urbana – tutte queste riforme, alla fine, si sono estenuate dando vita alla “città superamericana” o, se si preferisce, alla città fordistica e keynesiana. Il secondo trentennio del XX secolo è stato dominato dallo sforzo di creare città senza qualità per l’uomo senza qualità e, pertanto, di costruire una sorta di guscio funzionale della modernità tecnico-economica, ottenendo una specie umana socialmente e tecnicamente conforme. L’ultimo trentennio del secolo per contro, allo scopo di sfuggire al funzionalismo, si è risolto in una febbrile pluralizzazione degli stili urbanistici e culturali. Si può dire tuttavia che questo mutamento di rotta del postmoderno ha forse incontrato la sua fine dopo l’11 settembre 2001.
Le Twin Towers come simbolo della new economy
Oggi le torri gemelle del “World Trade Center” e con esse, probabilmente, quattromila esseri umani, sono andati in polvere a seguito di un atto, sinora inimmaginabile, di violenza terroristica. In questa sede è opportuno analizzare non tanto il trauma psicologico, quanto talune configurazioni simboliche, culturali, urbanistiche e di politica globale della cosa.
Le Twin Towers rappresentavano, come non riusciva a rappresentarla nessuno dei complessi della Downtown di Manhattan, la nuova economia materializzatasi spazialmente nelle global cities. Le Twin Towers non soltanto conferivano alla fisionomia della punta meridionale di Manhattan una nuova impronta, suscettibile di essere intesa come il trionfo finale della claritas funzionalistica; ma formavano anche, assieme al “World Financial Center” – esso stesso gravemente danneggiato – alla Borsa di Wall Street, per prima entrata nel segno dell’economia elettronica, nonché alle centrali bancarie con esse confinanti, il centro nevralgico della globalizzazione. Una globalizzazione fondata non più sui settori classici della produzione, ma anche sul potere di guida e di controllo dei flussi finanziari e dell’operatività economica. Si era creata in tal modo una nuova geografia, che divergeva nettamente dalla vecchia concezione degli Stati nazionali sovrani e dalle loro economie chiuse.
Questa geografia trova la sua espressione in alcune città o, per meglio dire, in quelle loro aree circoscritte che rappresentano la compatta, fitta rete di controllo di unoscape of flows mondiale. Questo spazio di circolazione di capitali invisibili e autopoietici è gestito con l’ausilio di giganteschi sistemi di informazione. Perciò la nuova Downtown di Manhattan, come le global cities, sono anche e soprattutto effetto della rivoluzione delle tecniche di informazione, quali sono in effetti le cyber cities materialmente espresse solo in pochi, ma estremamente concentrati complessi architettonici. Tratto caratteristico dello spazio globalizzato è, conseguentemente, non più la forma piramidale delle capitali mondiali contrassegnate da un centro e da un suburbio concentricamente disposto. Si assiste piuttosto all’implementazione dei vecchi centri, dei siti industriali o di nuove aree deputate a servire alla tecnica dell’informazione, così come all’implementazione di infrastrutture e di élites scientifiche ed economiche. La forma architettonica costituisce l’hardware del potere centralizzato di controllo di una rete globale, che dispone di raccordi secondari e terziari.
Con le Twin Towers non è stato dunque colpito, come spesso si dice, il “cuore dell’America”, ma la materializzazione simbolica di quella che Saskia Sassen ha definito la nuova triangolazione globale.2 A partire dal 1970 le global cities si sono affiancate, alla stregua di veri e propri centri direttivi, alle istituzioni classiche degli Stati nazionali e dell’economia mondiale. Tra questi centri, oltre New York, si possono annoverare Londra e Tokyo. Sotto il profilo iconologico, le Twin Towers eranol’asse del mondo3 di una realtà che, pur di origine americana e dall’America dominata, è nondimeno transnazionale.
La new economy ha avuto effetti non meno sensibili che paradossali sulla geografia urbana. New York, ancora pochi decenni prima, era una metropoli della produzione industriale e del movimento delle merci, cui corrispondevano precise stratificazioni sociali, i canali dei flussi di immigrazione, così come la configurazione dei quartieri modulati sullo specifico delle classi e/o delle etnie. L’articolazione dello spazio era configurata dalla tensione dinamica tra centro e periferia e dai caratteristici “nidi” etici di una classica città di immigranti, con le sue reticolazioni socio-economiche.4 Gli spazi erano orientati ad Est in direzione dell’Europa, da cui proveniva la massa degli immigranti. Conseguentemente i bianchi costituivano la maggioranza della popolazione cittadina. Nel giro di tre decenni i bianchi sono diventati minoranza. Oggi afroamericani, latinoamericani e asiatici assommano al 55/60% della popolazione. In una con l’incremento della proliferazione multietnica e con il nuovo profilo demografico della città, si è compiuto il tramonto di New York come “macchina della produzione industriale” e, sotto l’aspetto urbanistico, come “macchina dell’integrazione”. È iniziato, per contro, il decollo di New York City quale capitale dei servizi finanziari e industriali, un decollo associato a un management economico e finanziario ancorato alle gigantesche potenzialità dell’informatica. Un management che, tra l’altro, è realizzato con il reclutamento dei suoi addetti tanto a livello nazionale che internazionale.
Globalizzazione economica e segregazione sociale
L’attività e la vita delle nuove élites newyorkesi, non legate affatto a un luogo preciso, determina tuttavia lo straordinario fabbisogno di tanti piccoli servizi che vengono svolti dai nuovi gruppi demici di immigrazione. L’élite della gestione economico-finanziaria, culturalmente e geograficamente spaesata, e nel contempo estremamente attiva, numerosa, piena di esigenze culturali e di consumo, ha richiesto in sito una concentrazione che non ha eguali, di servizi culturali estremamente specializzati, privati e semipubblici, tagliati sullo stile di vita. Un’articolazione, questa dei servizi, che ha fatto di Manhattan anche un centro di attrazione turistica.
La politica di di-segregazione è venuta meno in conseguenza di questi movimenti demografici e della struttura economica. Al suo posto crescono i processi di segregazione non solo a New York, un tempo il melting pot per antonomasia, ma anche in tutte le global cities e nelle mega cities. Edward V. Soja, prendendo come caso esemplare Los Angeles, ha descritto le strategie urbanistiche dell’era postfordistica, strategie che portano alla dissoluzione della città duale (centro-periferia) e creano geografie nuove. La deindustralizzazione dei classici settori industriali conduce a: 1) gigantesche tecnopoli neoindustriali, quali possono trovarsi in Corea o nella Orange Country presso Los Angeles; 2) global cities che costituiscono la rete di controllo, a livello di città, del movimento di espansione dei capitali nella dimensione globale del cyberspazio.
Ne consegue, come sostiene Soja, che “quasi ogni angolo del mondo può diventare parte di una global city”.5 Perciò, se le global cities sono materialmente e localmente presenti, come ad esempio a Manhattan e a Francoforte, sono tuttavia deputate, alla stregua di cervelli direttivi, al controllo delle realtà locali. Possono così essere operative tanto in una miniera d’oro del Sudafrica, quanto in una fabbrica tessile della Tailandia, in un giacimento petrolifero arabo, in una fabbrica argentina di automobili, persino in una piantagione di coca della Colombia, in un giacimento siberiano di gas naturale, come in un sito di lavorazione del legno dei Tropici. È così per via della nuova articolazione degli spazi della Terra, tale che il globale è localizzato in alcuni punti e il locale è globalizzato ovunque. Le due geografie, l’una all’altra complementare, attivano, in maniera inedita, la segregazione. Creano, in altre parole, per le nuove élites, avviluppate nel potente mantello costituito da fornitori di servizi a esse totalmente asserviti, spazi sociali potentemente strutturati con le tecniche della sicurezza e separati come fortilizi.
La produzione della segregazione è essa stessa un servizio fornito tanto da ditte specializzate nella sicurezza, quanto dalla stessa polizia cittadina. Queste politiche sono il riflesso di una nuova forma di segregazione sociale, di polarizzazione e di smembramento della città, che hanno finito con il dar vita, tanto all’interno quanto ai margini della città, a sottoclassi sociali plurietniche, immote, prive della speranza di qualsiasi opportunità, persone che non sono più da assimilare, ma soltanto da ghettizzare. Come dire che nelle megalopoli si costruisce il rapporto tra un primo mondo ben circoscritto e un terzo e quarto mondo illimitato. Accanto ad aree urbane altamente confortevoli, efficienti, che rispecchiano il colossale dominio del capitale, assolutamente pulite, sorgono zone urbanisticamente desolate, con infrastrutture fatiscenti, abitate da etnie ad alto tasso di conflittualità; aree prive del tutto di strumenti di controllo e di qualsiasi sostegno da parte della città e dello Stato, carenti di supporto economico. Sembra quasi di ritornare alla dominanza, tipica del premoderno, dell’ascribed status, laddove la città moderna basava l’attrattiva del suo dinamismo sul fatto che in essa non prevaleva nessuno dei requisiti quasi naturali di status (nascita, razza, etnia, tipo di residenza), bensì la condizione raggiungibile con il lavoro e il rendimento (achieved status).6 Del resto, proprio su questo si fondava l’American dream.
Oggi chi non disponga di talune necessarie forme di identificazione (l’alloggio giusto nel quartiere giusto, il numero di conto, il telefono, il sito internet, la carta di credito, l’assicurazione sanitaria, o il social security number) è socialmente un “nessuno” nella terra di nessuno della città. Costui resta fatalmente in un outer space delleglobal cities e dell’economia globale, al modo stesso in cui, nel Medioevo, sarebbe stato inchiodato per nascita al suo ceto. Questo vale anche, in misura planetaria, per i miliardi di poverissimi confinati nella geografia della miseria: la loro nascita definisce fatalmente la loro vita sino alla morte. Di conseguenza, le élites di Manhattan, Francoforte, Hong Kong, Tokio, San Paolo, hanno tra loro in comune, a livello economico, sociale e delle abitudini, più di quanto non l’abbiano con i loro stessi connazionali alloggiati, a un paio di miglia di distanza, negli slums, nelle favelas, nellebanlieues o in uno degli Elendsviertel della Germania.
La globalizzazione implica altresì l’attivazione di una dinamica del tutto nuova di segregazione, una dinamica che, tanto nelle città, quanto nel pianeta nel suo complesso, produce una modificazione della strutturazione degli spazi. Se le idee urbanistiche della disgregazione e dell’assimilazione sono state rimpiazzate dal modo nuovo di concepire città, società e pianeta, lo è stata anche la natura, in forza di un’estesa frammentazione delle risorse storico-culturali e storico-naturali. Le global cities altresì configurano il modello dell’articolazione dello spazio nel futuro. Se già Georg Simmel descriveva le megalopoli classiche quali sfere dell’indifferenza, sotto cui la dinamica vitalità stavano in agguato la violenza e l’odio – la cui esplosione sembra per ora impedita dalle strategie sociali intese a creare le distanze tra i gruppi umani – oggi dobbiamo tuttavia constatare la presenza di un livello qualitativamente inedito di un’estrema tensione aggressiva.
La dimensione globale del terrorismo
È questa la prospettiva in cui vanno interpretati i recenti attacchi terroristici. La duplice forma della localizzazione del globale e della globalizzazione del locale è stata capovolta, con assoluta precisione, rispettivamente dagli aggrediti e dagli aggressori. Si è trattato di un’enorme inversione dello spazio che ha fatto coincidere il centro con la periferia. È stata questa la catastrofe dell’articolazione spaziale di una globalizzazione corrispondente non soltanto alla nuova economia, ma anche alla politica mondiale di potenza degli Stati Uniti.
Certamente non è stato con questo colpito il cervello dell’economia globale. Rientra infatti nell’idea di cyber-struttura con qui esso è stato costruito la condizione sine qua non che una catastrofe materiale, persino quando implichi, come è accaduto, una strategia umana, non possa distruggere, ma solo colpire simbolicamente questa articolazione dello spazio. La Downtown di Manhattan sarà materialmente ricostruita come centrale direttiva e di controllo dell’economia e del resto, quasi un attimo dopo l’attacco, questo centro è tornato in funzione. Le conseguenze economiche con le quali oggi ci cimenta sono soltanto delle scosse che porteranno alla crisi solo nel caso in cui dovessero sopravvenire ulteriori fattori di depressione. Quel che ora è avvenuto rappresenta certamente un brutto, delittuoso colpo sotto il profilo umano e materiale. Resta però il fatto che il trauma simbolico è decisamente più significativo.
Ricordiamoci che, soltanto sei mesi prima dell’attacco a Manhattan, l’11 marzo 2001, il regime dei Talebani aveva ridotto in polvere le due gigantesche statue di Buddha presso Bamijan, un’opera che apparteneva al patrimonio culturale del mondo. Le statue rappresentavano, per la concezione iconoclastica della teologia fondamentalista, solo degli idoli blasfemici. Ora distruggere gli idoli costituisce, sin dall’antichità, un atto sacrale di purificazione. Occorre perciò riconoscere una sorta di corrispondenza iconologica tra le statue gemelle di Buddha e le Twin Towers. Con le Twin Towers si trattava di distruggere gli idoli del nuovo ordine mondiale. Si tratta di una guerra contro le immagini, già intrinseca al terrorismo, che non ha avuto alcun riguardo per le vittime delle torri. Rientra in questa ottica anche l’attacco al Pentagono, che non soltanto doveva colpire la centrale militare dell’unica superpotenza, ma nel contempo ferire la forma magica di quel pentagramma che, sin dall’antichità, rappresentava non soltanto l’essenziale forma dello Stato ideale, ma anche il simbolo magico dell’indistruttibilità, dell’onnipotenza e del divino.
Era già abbastanza degno di nota il fatto che gli americani avessero conferito questa forma disarmonica, pregna di una stratificazione storica di simboli, al loro Ministero della Difesa; non è però meno significativo il fatto, nella logica della guerra alle immagini, che proprio questo edificio fosse identificato come il luogo simbolico dell’antidivino. Non intendo naturalmente contestare che, in questo caso, era destinato ad essere colpito anche materialmente il centro della potenza americana. Resta tuttavia il fatto che la coincidenza tra la prova dimostrativa della reale vulnerabilità della superpotenza americana e la distruzione simbolica di una forma così carica di simboli cruciali – di una forma così perfetta, divina, dell’invulnerabilità – ha comportato un’enorme dilatazione del processo traumatizzante. Appartiene altresì alla valenza simbolica del colpo terroristico la data stessa: 11 settembre, il medesimo giorno e mese di quel 1973 in cui gli aerei militari cileni attaccarono il palazzo presidenziale di Salvador Allende; il medesimo giorno e mese in cui Allende fu ucciso (né si dimentichi, detto per inciso, che, stando alle convinzioni diffuse a livello internazionale tra i nemici degli Stati Uniti si pensò che i burattinai del putsch militare occupassero le poltrone del Pentagono e della CIA).7
L’attacco alle Twin Towers ha prodotto, nello spazio asettico della global city, uno scenario di devastazione bellica di portata realmente enorme: un’immagine del quarto mondo, ma anche, nel contempo, un cimitero che sembra continuamente espandersi, giacché è impensabile la possibilità di recuperare cadaveri che non appaiono. Sarà impossibile, anche dopo migliaia di anni, ritornare agli usi consolidati della guerra, alla possibilità cioè di seppellire i propri morti. Si è così pervenuti a dimostrare, con una perfetta perfidia, la possibilità dell’irruzione nel centro dell’ordine mondiale della barbarie; una barbarie, altresì, che è il riflesso barbarico di questo stesso ordine. Il che vuol dire che il terrorismo, anche se è il risultato della mancanza di opportunità, della frammentazione e della ghettizzazione, può riuscire ad operare nel globale esattamente come fanno gli strateghi della globalizzazione.
Nella modernità la reazione dell’impotenza alla potenza era costituita dal partigiano che, dietro le linee del fronte, sbucava fuori dal nulla, attaccava puntualmente lo strapotente avversario, per poi svanire sempre nel nulla.8 Il nuovo terrorismo opera bensì al modo dei partigiani, ma in una prospettiva totalmente diversa: non c’è fronte, non c’è guerra, né c’è l’intenzione di sopravvivere. Il terrorista non è un nemico dotato di una qualche identificabile appartenenza. Egli fa scattare certamente la sua azione dall’ordine spaziale eterotopo proprio dei partigiani, onde poter puntualmente colpire, nello spazio e nel tempo, sbucando dall’invisibile. Con la differenza, tuttavia, che il nuovo terrorismo sfrutta proprio l’ordine spaziale della globalizzazione, che è dappertutto e in nessun luogo, presente ma invisibile, attiva ma inafferrabile. Si adatta perciò alla globalizzazione, la quale finisce con l’essere per il terrorismo la migliore forma di mimetismo.
A differenza del partigiano, il nuovo terrorismo non opera “sul terreno” e in ordine a una particolare situazione, ma in un’ottica di strategia simbolica. Il partigiano intende vincere e sopravvivere nell’ordine per il quale combatte. Oggi per contro il terrorista, persona del tutto priva di ogni possibilità di realizzazione, si cimenta con le forze del mondo ed è perciò destinato a inscenare dimostrazioni che non tanto hanno l’obiettivo dell’uccisione o del suicidio, quanto piuttosto seguono la necessità di essere efficaci a livello simbolico. Il terrorista impersona il quarto mondo, segregato e disperato, che si presenta nelle centrali del primo mondo.
Verso una crescente frammentazione della città
Cerchiamo di rammentarci per un momento quali erano i requisiti che erano stati posti dagli urbanisti per la strutturazione dello spazio socio-culturale delle grandi città: le città devono poter servire all’immigrazione che, allo stato attuale, ha assunto in generale la forma di una migrazione multiculturale; esse necessitano di strategie trasparenti di aggregazione economica e sociale, senza però con questo distruggere i “nidi” dell’economia sussidiaria delle diverse etnie e la reticolazione socio-culturale di gruppi demici che si organizzano in microcontesti regionali. Questo significa due cose: da un lato, la necessità del pluralismo culturale e della multidimensionalità socio-economica, associate ai percorsi dell’innesto demico, dell’integrazione e dell’assimilazione nel macrospazio della città; dall’altro la necessità della straordinaria densità delle forme di vita e di riproduzione nel medio e nel microspazio di quartieri che non possono essere pensati come destinati a sorgere in zone predeterminate e perciò separate dalla città. L’economy of poverty nei quartieri etnici della migrazione e nei quartieri proletari e sottoproletari delle new under–and housing classes ha, per cinica che possa suonare questa affermazione, una funzione essenziale per la sopravvivenza delle città. Questa economia deve essere “lasciata a se stessa”. Di qui l’opportunità che la città disponga in generale di spazi di accesso e transito ai fini della collusione culturale, dello scambio, dei contatti, della reciproca compenetrazione e riproduzione, e, perciò stesso, di quella che viene chiamata politics of visibility.
Dopo l’11 settembre tali prospettive sono pressocché svanite. A quel che si era potuto osservare, c’era già stata una potente mobilitazione di strategie segregatrici accentuate dalla politica della deregulation economica e della globalizzazione ai fini militari e della politica di sicurezza. Come risposta alla globalizzazione del terrore, che ha mostrato la sua potenza distruttiva proprio nel cuore della globalizzazione economica, è seguita la marcia forzata dell’accerchiamento militare, su scala mondiale, delle sospette centrali del terrorismo e del rafforzamento, in politica interna, degli standard complessivi di sicurezza.
È stato proprio il successo del terrorismo a portare, a livello urbano, ad un ulteriore passo in avanti nel processo di deliberalizzazione delle città e, pertanto, a una crescita delle strategie di segregazione e di controllo. In conseguenza delle misure di sicurezza prese per fronteggiarlo, la potenziale ubiquità del terrore distrugge lo spazio di libertà necessario allo sviluppo delle città. La cosa è destinata a investire tanto quelli che Michel Foucault9 e Marc Augé10 chiamano i non luoghi, i luoghi dell’eterotopo e del transitorio, dove si incrociano e si affollano confusamente uomini e cose, quanto, altresì, i quartieri poveri, ancora più chiusi di prima, e gli spazi immacolati, sempre più saldamente rafforzati dalla tecnologia della sicurezza, delle centrali economiche, dei complessi governativi, e delle enclaves della residenzialità esclusiva delle élites.
In questo modo, per usare l’espressione cara a Musil, si profila una superamericanizzazione della città che va nel senso della frammentazionepostfordistica della città, modulata sugli imperativi della sicurezza e della segregazione etnica. Sarebbe il tramonto definitivo della modernità e insieme la conseguente fine di una architettura urbanistica ispirata alle grandi tradizioni della città dell’utopia e dell’utopia come città.
Il pericolo più grave comportato dal terrorismo sta nel possibile intreccio tra la patologia di una disperata violenza criminale e la patologia di una concezione paranoica della sicurezza e del controllo. Una miscela, questa, che distrugge lo spazio di una dimensione urbana pluriculturale. È importante allora combattere questo pericolo, altrettanto importante quanto porre fine al terrorismo e alle condizioni della sua stessa genesi prodotte dal mondo occidentale.
Traduzione di Franco Voltaggio
1 R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, 1958, pp. 34-35. DE”>
2 S. Sassen, “Metropole: Grenzen eines Begriffes”, in G. Fuchs, B. Moltmann, W. Prigge (eds.),Mythos Metropole, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1994; G. Fuchs, B. Moltmann, “Wirtschaft und Kultur in der globalen Stadt”, in B. Meurer (ed.), Die Zukunft des Raums, Campus, Frankfurt a.M., 1994.
3 Ci riferiamo qui a una delle sculture centrali di Constantin Brancusi.
4 R.E. Park, The City, Chicago UP, 1967; R. Lindner, “Stranger than Fiction: Die Entdeckung der Stadtkultur”, in B. Brander, K. Luger, I. Mörth (eds.), Kulturlebnis Stadt. Theoretische und praktische Aspekte der Stadtkultur, Picus, Wien, 1994.
5 Cfr. E.W. Soja, “Postmoderne Urbaniisierung”, in Fuchs, Moltmann, Prigge (eds.), Mythos Metropole, cit.
6 Cfr. R.K. Merten, Social Theory and Social Structure, Free Press, Glencoe, 1957
7 Al mese di settembre risalgono altri episodi significativi. Ricordo qui l’attacco contro gli atleti israeliani, durante le Olimpiadi di Monaco, il 5 settembre 1972, condotto dal gruppo dei terroristi di “Settembre nero”. Il gruppo prese questo nome a ricordo del massacro dei palestinesi compiuto nel settembre 1970 dall’esercito giordano. Tra l’altro, il 6 settembre ebbe luogo lo spettacolare dirottamento di aerei civili diretti in Giordania, di cui tre furono fatti esplodere. Sempre per quanto concerne la coincidenza dell’11 settembre, ricordo ancora il discorso rivolto dal presidente George Bush l’11 settembre 1990 alle due camere del Parlamento americano, discorso nel quale, annunciando la preparazione della Guerra del Golfo, Bush dichiarò l’avvento di un nuovo ordine mondiale. Il discorso è entrato a far parte degli annali americani come “New World Order Speech”.
8 Cfr. H. Ritter, “Der Feind Terroe ohne Territorium, Vernichtung als Program”, in FAZ, 19/9/2001; C. Schmitt, Theorie des Partisanen: Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen, Duncker-Humblot, Berlin, 1975.
9 Cfr. M. Foucault, Spazi altri, Mimesis, Milano, 2001.
10 M. Augé, Nonluoghi, Eleuthera, Milano, 1993.