I due volti della globalizzazione
Sami Naïr
Ormai anche la nostra civiltà ne è consapevole: sappiamo di essere mortali. Questa disincantata constatazione di Paul Valéry, enunciata all’indomani della Prima Guerra Mondiale, è ancora di un’attualità inquietante. Il XX secolo è stato il secolo delle guerre, delle distruzioni di massa, delle rivoluzioni, dei genocidi, dei totalitarismi e, per dirla tutta, della continua disfatta della ragione nelle relazioni umane. In una parola, della follia. Ma è stato anche il secolo dell’emancipazione dei popoli colonizzati, della rivoluzione tecnica e scientifica, dell’integrazione culturale, della nozione di uguaglianza tra i sessi, della conquista dello spazio, dei progressi senza precedenti nel campo della sanità e dell’educazione, e dello sviluppo dei movimenti sociali su scala planetaria. Secolo contraddittorio, dove hanno convissuto il peggio e il meglio. Secolo di solidarietà e di odi, di speranze e di disperazione.
L’occidentalizzazione del mondo
Oggi a che punto siamo? Verso quale mondo andiamo? Nessuno può rispondere con sicurezza a tali domande. Sappiamo soltanto – come giustamente diceva Valéry – che la nostra civiltà è mortale, e che il peggio è altrettanto probabile del meglio.
Per tentare una risposta, si può adottare il punto di vista del presente, oppure collocarsi nell’ottica del medio o del lungo periodo. Si può anche, più comodamente, scegliere di porsi all’intersezione di tali assi di sviluppo temporale, e pensare, in modo per così dire longitudinale, una realtà i cui presupposti hanno le loro radici in tempi lontani. La mia analisi muove dal postulato che il fenomeno storico più rilevante, a partire dal XVI secolo, è stato l’“occidentalizzazione” del mondo. Tale fenomeno si può riassumere in una formula messa in evidenza dal grande storico francese Fernand Braudel: “l’estensione planetaria della civiltà materiale del capitalismo”. Attualmente, non esiste più alcuna società (salvo forse qualche popolazione perduta nel cuore dell’Amazonia, priva di contatti con il resto dell’umanità) che sfugga agli effetti di tale civiltà. Contrariamente a quanto credono i sostenitori superficiali dello scontro delle civiltà o della “fine” della storia, si può affermare che esiste, ormai, soltanto una sola civiltà dominante, che si articola su una pluralità di culture e di identità, per inglobarle o distruggerle, per nutrirsene o emarginarle. Le religioni stesse non sono più delle strutture di civilizzazione, come lo sono state a volte alla fine dell’antichità o durante il Medio Evo; esse non sono altro ormai che delle identità culturali relative che devono adattarsi, più o meno dolorosamente, alla civiltà materiale del capitalismo trionfante. E ciò che è vero per le religioni da due secoli a questa parte, lo è ancor più per ciò che riguarda le utopie laiche del XIX e XX secolo: né il socialismo, né il comunismo hanno potuto resistere alle leggi ferree del mercato capitalistico.
La distruzione creatrice
Dunque oggi non assistiamo ad un cambiamento di paradigma storico, ma subiamo piuttosto la vittoria totale e forse secolare di un unico paradigma. Ciò non significa naturalmente che la struttura e il contenuto di tale paradigma (la civiltà materiale del capitalismo), non siano cambiati. Al contrario. È proprio la perpetua mutazione che ne costituisce l’originalità profonda. Schumpeter l’aveva ben intuito con la sua teoria delle “distruzioni creatrici”. Nell’arco di quattro secoli, è possibile evidenziare molteplici configurazioni del capitalismo e altrettante fratture al suo interno. Dal capitalismo mercantile al capitalismo industriale, da questo al capitalismo finanziario e da quest’ultimo al capitalismo fondato ormai sulla manipolazione dell’immateriale (capitalismo informazionale), i rapporti economici e sociali sono stati trasformati in profondità – così come le ideologie, le culture, le identità, l’immaginario stesso dell’essere umano. Ma tali modificazioni si producono all’interno dello stesso paradigma e nel quadro delle sue condizioni strutturali. Se si volesse definire ciò che attualmente configura tali mutazioni, lo si potrebbe riassumere in qualche semplice punto: modificazione del concetto di valore economico, il quale si organizza meno in funzione del lavoro che in relazione con l’intelligenza, l’informazione, la rapidità speculativa della circolazione di capitali su scala mondiale; rovesciamento dei rapporti sociali che modifica la struttura delle classi e dei gruppi sociali, in particolare rendendo possibile l’emergere di élites finanziarie mondiali; rottura nella continuità biologica dell’umanità con l’avvento delle tecniche di manipolazione genetica, le cui conseguenze sono sia positive, per la protezione della vita umana, sia terrificanti per la prospettiva di un loro possibile utilizzo incontrollato; mutazioni, infine, della struttura etnica della popolazione mondiale, attraverso gli ineluttabili processi migratori attualmente in corso in tutto il pianeta, e che nessuna legislazione, per quanto dura, arriverà mai a controllare totalmente. Tali mutazioni sono al tempo stesso nuove e fortemente radicate nell’antico paradigma, e questo lo si può verificare con la persistenza e il rinnovamento dei rapporti di dominio, di sfruttamento e di alienazione consustanziali alla logica del profitto, la quale costituisce, a sua volta, il nucleo strutturale di tale civiltà. Tutto è cambiato e al tempo stesso nulla, in termini di emancipazione umana, è cambiato.
Il senso della storia
Lo sviluppo dell’umanità non si attua in nome dell’umanità stessa, ma piuttosto in nome di qualcosa che sfugge alla coscienza collettiva delle società, ossia la ricerca insaziabile del profitto. La tesi di Adam Smith, secondo la quale la ricchezza è legata non all’espansione dell’individuo ma al suo assoggettamento alla dinamica del profitto, rende ragione più che mai del nostro modo di agire e di pensare nell’epoca della globalizzazione liberale. Quest’ultima appare, in questa prospettiva, come la conseguenza finale di tale vasto processo di sfruttamento planetario e di concentrazione delle ricchezze. La globalizzazione porta con sé, al tempo stesso, l’energia creatrice e la forza distruttrice, la tendenza all’ineguaglianza che deriva dalla guerra di tutti contro tutti nel mondo della concorrenza generalizzata, e la reazione che mira ad ottenere più eguaglianza e solidarietà. La globalizzazione costituisce una fase certamente nuova, poiché i suoi mezzi sono nuovi. Essa non è una nuova civiltà, dal momento che si inscrive nel processo di formazione di un’economia mondiale in corso da alcuni secoli. Essa non è né una regressione né un progresso in rapporto al passato, dal momento che regressione e progresso sono determinazioni elaborate in funzione di un senso della storia, del quale è impossibile definire in termini rigorosi il contenuto.
C’è chi ritiene che sia in atto un ritorno verso il Medio Evo. Ma un rapido sguardo alla storia dell’umanità, dimostra che in realtà non si ritorna mai al passato. Dov’è l’esempio di una società che sia ritornata al passato? Il Medio Evo non fu un ritorno all’Antichità. Il totalitarismo non è una restaurazione dell’Inquisizione, anche se sembrano ricorrere molti elementi identici. La società medievale era trifunzionale (coloro che comandano, coloro che pregano e coloro che lavorano), la società moderna è multifunzionale (dominazione delle élites finanziarie, comando delle élites mediatiche e politiche, lavoro salariato ed emarginazione sociale, crescita dell’individualismo, etc). La dinamica medievale era lenta e di breve effetto, quella della società dell’informazione è rapida e di corto effetto. Le classi erano allora embrionali rispetto alla rigidità degli status, mentre oggi gli status sono in corso di irrigidimento in un contesto di mutazioni di classe. La nostra società è di gran lunga più complessa e mobile rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Non si ritorna al Medio Evo, si procede verso qualcosa di diverso, forse qualcosa di migliore rispetto alla nostra società attuale o forse di peggiore del Medio Evo. Tale principio di incertezza è insomma la sola verità certa. Non deriva da condizioni oggettive di fronte alle quali si sarebbe impotenti. Dipende piuttosto dalla nostra capacità di affrontarlo.
Due ricette per il futuro
L’interrogativo sul dove stiamo andando sottintende e chiama in causa la nostra idea dell’umanità. Quale umanità vogliamo? Non si tratta di una domanda astratta. I nordamericani vogliono un mondo fondato sul modello antropologico-economico anglosassone (individualismo ed evoluzionismo darwiniano), gli integralisti che hanno distrutto le Torri Gemelle rifiutano tale modello e preferiscono un ordine organico e comunitario. E noi? La cultura europea s’è formata a partire dai valori di libertà, di uguaglianza e di solidarietà, nel solco inaugurato dalla rivoluzione francese del 1789. Che cosa ne è della libertà in una civiltà globalizzata nella quale i capitali determinano, a scapito della sovranità dei popoli, le condizioni di vita dei popoli stessi? Che cosa ne è dell’uguaglianza, allorché l’individualismo minaccia dappertutto la convivenza civile e la ragione cinica considera i privilegi come segni di virtù? E la solidarietà cosa diventa, quando i quattro quinti dell’umanità vivono sulla soglia della miseria e la ricchezza dei pochi è direttamente, automaticamente costruita sulla povertà degli altri? Siamo consapevoli del fatto che, a partire dal 1960, i trasferimenti finanziari dal sud verso il nord equivalgono a più di venti piani Marshall?
La nostra civiltà soffre di un’insufficienza fondamentale: la capacità di pensare l’avvenire. Si tratta forse di un periodo di transizione? Forse l’avvenire risorgerà come interrogazione pressante all’interno stesso del presente? Bisogna sperarlo. Nell’attesa, non c’è nulla di peggio che consentire l’intollerabile. Per preparare questo avvenire, bisogna anzitutto imparare ad interpretare bene il mondo nel quale ci troviamo. La prima delle certezze che ne ricaveremo, sarà che nessuno dispone delle chiavi del futuro. L’avvenire non si legge più, come nell’età dell’epica, nel cielo stellato; si costruisce piuttosto, trovando il cammino in mezzo ai patimenti e con la forza della volontà.
Traduzione di Tiziana Colusso