Una nuova stagione della politica internazionale
Norberto Bobbio
Con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del dicembre 1948, che ha ormai compiuto più di mezzo secolo è iniziato un processo di trasformazione del sistema internazionale, non ancora compiuto ma da proseguire con tenacia e fiducia nel secolo nuovo. Riconoscendo a tutti gli individui singolarmente considerati a uno a uno, uomini e donne, indipendentemente dalla loro nazionalità o dall’appartenenza a questo o a quello Stato, alcuni diritti fondamentali che dovrebbero stare alla base di ogni futura costituzione, la Dichiarazione ha reso gli individui, potenzialmente, soggetti del diritto internazionale, che sinora aveva riconosciuto come soggetti fondanti e legittimi soltanto i singoli Stati. Dico “potenzialmente”, perché la Dichiarazione, in quanto tale, è soltanto l’espressione di un comune sentire dei governi del mondo dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Ogni diritto, per diventare diritto nel senso pieno della parola, deve essere difeso anche ricorrendo alla forza in ultima istanza quando esso è violato. E stato ripetutamente detto, non a torto, che di per se stessa la Dichiarazione è soltanto una coraggiosa ma velleitaria espressione di pii desideri. Il passaggio dal riconoscimento in astratto dei diritti fondamentali dell’uomo alla loro effettiva protezione segna il cammino del futuro ordine internazionale.
A riprova di questa tendenza al rafforzamento dei diritti dell’uomo, è stato recentemente proposto e approvato un progetto di Declaration of Human Duties and Responsabilities, da un Comitato che l’ha consegnata ufficialmente il 28 aprile al Direttore generale dell’Unesco, con l’incarico di presentarla all’Assemblea generale di questo istituto. La prima e maggiore responsabilità rispetto alla protezione dei diritti dell’uomo appartiene naturalmente ai singoli Stati di cui gli individui fanno parte. Il riconoscimento o meno dei diritti dell’uomo contraddistingue gli Stati di diritto dagli Stati di polizia. Il documento citato si rivolge naturalmente agli uni e agli altri. Inoltre considera destinatari dei suoi precetti anche le organizzazioni non governative e tutti quegli enti della società civile cui spetta il dovere e la responsabilità di una sempre più effettiva applicazione delle misure di tutela dei diritti umani. Il documento è diviso in capitoli che corrispondono su per giù ai principali diritti dell’uomo enunciati nella Dichiarazione universale. Nel rapporto fra due soggetti, diritto e dovere sono termini correlativi. Anche se è evidente che il diritto di un cittadino nei confronti dello Stato esige il dovere corrispondente da parte dello Stato, questa dichiarazione tende solennemente a fare di questo rapporto un vincolo pubblicamente riconosciuto e accettato. Peraltro, affinché le stesse accuse di velleitarismo rivolte alla Dichiarazione dei diritti non venga ripetuta nei riguardi della Dichiarazione dei doveri, occorre ancora una volta il rafforzamento del sistema internazionale che è uno dei temi principali che l’umanità dovrà affrontare nel prossimo secolo, e per la soluzione del quale già si manifestano in questi ultimi tempi segni ammonitori e incoraggianti. Lo stesso problema che vale per i diritti umani, la loro trasformazione da diritti in senso debole in diritti in senso forte, vale anche per la trasformazione dei doveri da moral duties in legai duties.
La prima tappa è costituita dalla difesa di questi diritti in primo luogo nei riguardi dello Stato di cui l’individuo fa parte. Nel momento in cui il diritto del singolo diventa più forte del diritto dello Stato, e allo Stato ne è imposta la tutela, viene a cessare necessariamente l’esistenza del dovere da parte degli altri Stati e della Comunità internazionale di non intervenire negli affari interni del singolo Stato. Tenendo conto di questa inversione dei rapporti tra i diritti del singolo individuo e i diritti dello Stato, la difesa dei diritti dell’uomo ha cominciato ad apparire come una nuova causa di giustificazione dell’uso della forza da parte della Comunità internazionale. Soltanto l’enforcement di un diritto lo trasforma da diritto morale (moral right) in diritto giuridico (legal right). Oltre le tradizionali iustae causae di guerra è comparsa per la prima volta nella storia dei rapporti fra Stati, come causa giusta, la difesa dei diritti dell’uomo violati da uno Stato autoritario e dispotico. È comparsa, dico, anche se da più parti è controversa: è possibile praticamente difendere i cittadini di uno Stato dispotico con mezzi che non ledano i diritti di cittadini innocenti all’interno di questo stesso Stato? Comunque, la conseguenza del riconoscimento della difesa dei diritti dell’uomo all’interno dello Stato dovrebbe trasformare l’azione di guerra, nel senso tradizionale della parola, in un’azione di polizia, tra i cui mezzi per ristabilire l’ordine, l’uso della forza è negli Stati democratici in linea di massima escluso. Che questa trasformazione fosse nelle intenzioni di coloro che hanno approvato lo Statuto delle Nazioni Unite, è indubbio, anche se poi l’applicazione delle misure che avrebbero dovuto dar vita a un esercito internazionale, che funzionasse da poliziotto internazionale, non è mai avvenuto. Nel corso degli anni successivi alla seconda guerra mondiale molte illusioni sulla forza costringente della comunità degli Stati riuniti in un unica organizzazione mondiale, sono cadute. Molte guerre si sono accese dopo la seconda guerra mondiale e l’Unione, che avrebbe dovuto essere solidale, per costituire una forza più forte di tutti gli Stati belligeranti, ha dimostrato la sua tragica impotenza.
Ho avuto occasione di dire più volte nel corso della guerra contro Milosevic, che una guerra in generale una qualsiasi azione di forza, deve essere giudicata da due punti di vista: dal punto di vista della sua legittimità e da quello della sua efficacia. Una guerra può essere in linea di principio giusta, ma non riuscire a raggiungere i propri obiettivi; o, se li raggiunge, li raggiunge con mezzi sproporzionati al fine. Così come una guerra può essere in linea di principio ingiusta ma efficace tanto da ottenere l’effetto voluto, sì che a lungo andare in base al principio di effettività finisce per essere legittimata. Sulla recente guerra del Kosovo i due giudizi si sono alternati e hanno dato origine alle più diverse interpretazioni contrastanti. Ciò che non deve essere assolutamente confuso è l’intervento per la difesa dei diritti dell’uomo, come nuova giusta causa di guerra, con la cosiddetta “ingerenza umanitaria”. Si è detto più volte nel corso di questa guerra, e io stesso ho ripetuto, che “ingerenza umanitaria” è una espressione troppo vaga per essere accolta come criterio di giustificazione. L’ingerenza umanitaria fa immediatamente pensare alle guerre come crociate, di cui si è perduto il ricordo, da quando il problema della guerra è stato posto in termini più rigorosamente giuridici, seguendo l’evoluzione del diritto internazionale durante la formazione del sistema di equilibrio fra gli Stati europei, che è stato chiamato jus publicum europaeum. Anche per quel che riguarda i mezzi che è lecito impiegare per la tutela dei diritti dei popoli occorre di volta in volta distinguere la loro liceità dalla loro efficacia. Le sanzioni economiche, come sono state applicate all’Iraq dall’Organizzazione internazionale e a Cuba dagli Stati Uniti, si sono sinora rivelate meno efficaci del previsto. Chi non ricorda le sanzioni contro l’Italia in occasione della guerra di Etiopia, che rafforzarono all’interno il consenso degli italiani al regime fascista e non ebbero alcun effetto sull’esito della guerra? Il che non toglie che, nonostante lo scarso effetto, esse rappresentino concretamente da parte degli Stati che le applicano l’ostensione di un atteggiamento ostile di pre-guerra.
Oggi si va affermando sempre più nel diritto internazionale, con riferimento a quanto si è detto sulla tendenza del sistema internazionale a oltrepassare la sovranità dei singoli Stati, la dottrina dell’ampliamento e del rafforzamento di corti internazionali che giudicano processualmente l’operato non solo dei singoli Stati, ma degli individui responsabili di crimini contro l’umanità. Ancora una volta, l’istituzione di una Corte internazionale chiamata a giudicare singoli individui mostra chiaramente il passaggio, su cui sin dall’inizio ho insistito, da un sistema in cui solo gli Stati sono i soggetti, a un sistema in cui sono responsabili, all’interno di uno Stato, singoli individui. Quali siano le conseguenze di questa trasformazione in atto rispetto al dogma tradizionale della sovranità assoluta degli Stati, è del tutto evidente. Basti dire che a favorire il decadimento della sovranità dei singoli Stati contribuisce anche il processo di globalizzazione in corso, attraverso il quale la sovranità dei singoli Stati è minacciata non solo da un diritto sovraordinato agli Stati ma anche da potentati economici, il cui raggio di azione supera i tradizionali confini degli Stati e porta a quella economia-mondo in cui la maggior parte degli Stati economicamente deboli non conta più nulla. Che le Nazioni Unite non siano riuscite ad attuare gli scopi per cui erano nate, è un tema tanto vasto di discussione che non è il caso di affrontarlo in questa sede. Il processo verso il superamento di una confederazione di Stati verso l’unione di Stati e oltre, fino alla federazione mondiale di tutti gli Stati, quella che Kant nel suo famoso progetto sulla pace perpetua aveva chiamato Weltrepublik, più che un progetto è allo stato attuale dei rapporti internazionali, un ideale limite. Per realizzare lo Stato universale occorrerebbero due processi paralleli, la democratizzazione di tutti gli Stati del mondo e la democratizzazione degli organi di governo dello stato mondiale. Basta por mente alla difficoltà che queste due tendenze giungano al loro compimento, per rendersi conto che la Weltrepublik è un ideale utopico sempre più messo in discussione da recenti tendenze di studiosi, che guardano ai problemi del futuro governo mondiale con atteggiamento realistico.
Era naturale che i fallimenti più volte registrati dell’azione militare delle Nazioni Unite facessero emergere come potere alternativo quello della potenza di gran lunga più grande, sia nel campo politico che in quello economico e militare: gli Stati Uniti. Mentre una pace ottenuta attraverso gli organi competenti delle Nazioni Unite è una pace concordata, quella che segue all’azione degli Stati Uniti è una forma tipica, che la storia altre volte ha conosciuto, di pace imperiale. Non si tratta di un titolo morale e politico, ma della constatazione di un mero fatto, la nascita di un’egemonia, come più volte è avvenuto nel corso della storia nei secoli passati. Il principio di egemonia rappresenta la netta antitesi al principio di organizzazione internazionale, che ha dato luogo dopo la prima guerra mondiale alla Società delle Nazioni, dopo la seconda, alle Nazioni Unite. Ho già fatto riferimento altre volte a un famoso passo di Hegel, scrittore realista quant’altri mai, in cui, alla fine della sua filosofia del diritto e dello Stato, il filosofo sostiene che nella storia del mondo lo Stato che in una determinata epoca diventa egemonico ha un “diritto assoluto”, vale a dire un diritto nei riguardi del quale tutti gli altri Stati sono senza diritti. L’Unione europea invano si è contrapposta, come si è chiaramente rivelato nell’ultima guerra, all’egemonia americana, ma l’Unione Europea non è ancora uno Stato e solo al governo dello Stato appartengono le decisioni di politica interna e il comando di un esercito comune. È un fatto sotto gli occhi di tutti che le trattative di pace oggi più decisive per il futuro del mondo si svolgono non nel Palazzo di Vetro di New York, ma alla Casa Bianca di Washington. Sino a quando questo Stato egemonico duri, nessuno oggi, credo, è in grado di predire. Sinora la storia è stata caratterizzata da un succedersi di Stati egemonici, di cui l’uno scende e l’altro sale. Il secolo XIX, dopo la sconfitta di Napoleone, è stato il secolo dell’egemonia britannica, la quale si è trasferita dopo la seconda guerra mondiale nell’egemonia americana. Nessuna egemonia è destinata a durare in eterno. Uno storicista come Hegel lo sapeva benissimo. L’Europa moderna è nata dal dissolvimento della pax romana. Sino a quando sia destinata a durare la pax americana, lasciamo volentieri la risposta a coloro che si affacciano al terzo millennio. Il rafforzamento della tutela dei diritti dell’uomo è uno dei problemi principali che l’umanità dovrà affrontare nel nuovo secolo. La prima tappa riguarda la difesa di questi diritti nei confronti dello Stato di cui l’individuo fa parte. Se il diritto del singolo diventa più forte di quello dello Stato, viene meno il principio della non interferenza della Comunità internazionale negli affari interni del singolo Stato.