L’ultimo libro di Marcel Cohen
Marcel Cohen, La scena interiore, Ponte alle grazie, 2014, euro 13,50
A settant’anni dalla Shoah e dalla Liberazione, con la scomparsa dei testimoni diretti, dei deportati, il problema del come trasmettere la memoria dell’accaduto è di capitale importanza. Le singole vicende degli individui, pur nella loro unicità, possono essere rivissute nel racconto, nella narrazione e diventare strumento efficace di conservazione e trasmissione della memoria. In anni recenti vi è stato, anche in Italia, un proliferare di libri e di testimonianze sulla persecuzione e lo sterminio degli ebrei d’Europa, di autori italiani – da Primo Levi in avanti – o tradotti da altre lingue; da Eli Wiesel a Saul Friedlander, da Janina Bauman a Simcha Guterman.
Nella letteratura di memoria, questo libro così agile e originale, edito appena un anno fa in Francia, occupa un posto insolito. Quella di Marcel Cohen è una famiglia di ebrei sefarditi, originari di Istanbul e immigrati in Francia negli anni Venti. Artigiani e dediti al piccolo commercio, educati nel cosmopolitismo dell’Impero ottomano e nel suo pluralismo linguistico (turco, judeo-español, francese, greco, armeno).
Nella Parigi occupata dell’estate del 1943, la polizia di Vichy irrompe nella loro casa, cattura la madre, il padre, la sorellina di appena tre mesi, i nonni paterni, alcuni zii. Li interna a Drancy; da li i convogli li deporteranno ad Auschwitz dove saranno assassinati.
Marcel, bambino di cinque anni, tornato quel giorno dal parco in compagnia della domestica dei nonni, assiste alla razzia protetto da alcuni vicini. Sopravviverà nascosto dalla famiglia della domestica fuggiasca in Bretagna sino alla Lliberazione.
Il libro è un insieme di ricordi, minuti frammenti di ricordi e lunghi intervalli di silenzi e oblio, di quel mondo familiare annientato con metodica, efferata brutalità. Sono i ricordi di un bambino, trasfigurati dal dolore immane della perdita. Li accompagnano, oltre a qualche fotografia e alcuni oggetti che a loro appartenevano ritrovati nelle cantine della casa (una borsa, una cuffia, un pupazzo, un bracciale), le testimonianze di un fratello del padre sopravvissuto alla razzia raccolte in fugaci confidenze dalle figlie dopo anni di mutismo dolente. Il tentativo di Marcel è quello di ricostruire, da piccoli indizi, cenni di esistenza, un ritratto di vita vissuta dei suoi cari. Aleggia in queste pagine un amore profondo per la famiglia perduta, un amore intessuto di ricordi labili, affidati – come recita il titolo del libro – alla scena interiore di ciascuno.
Basti un esempio: il ricordo di Jacques, il padre di Marcel. «Quando Jacques mi sollevava da terra per mettermi sulle sue spalle trovava piacere nel tenermi immobile per un istante a braccia tese. Avrei dovuto ridere per fargli vedere che non avevo paura, ma ci riuscivo solo a metà … Per strada, ogni volta che vedo un bambino sulle spalle del padre, mi dico che indubbiamente non esiste felicità più grande e che, se anche la piccola vertigine e il timore sono reali, vengono compensati ben oltre le aspettative dalla sensazione di avere il mondo ai propri piedi e di essere invulnerabili».
Il ricordo più toccante e sommesso è quello di Monique, la sorellina internata in un ospedale a tre mesi dalla nascita e a sette deportata con la madre con il convoglio 63 da Drancy ad Auschwitz. Di lei non sussistono documenti – ci ricorda Marcel – se non un atto di nascita e un nome burocraticamente inserito in una lista di deportati su quel convoglio. Nessuna prova della sua morte. Dopo la guerra, il fratello vuole incidere il nome di Monique sulla tomba dei nonni materni in un cimitero parigino, ma l’impresa di pompe funebri richiede un certificato di decesso, un documento che ne accerti la morte. È un paradosso tragico, ma per i formalismi ufficiali, senza quel documento, Monique è ancora in vita.
I milioni sterminati nei campi non hanno né sepoltura né documenti. Grazie a un favore, quasi un’eccezione, il suo nome, alla fine di lunghe trattative, figura sulla tomba. L’atto di nascita e il suo nome sulla tomba sono le uniche prove che Monique sia esistita.
Giorgio Gomel